piccola posta
L'unica cosa che possiamo fare contro l'atomica di Putin è giocare ad armi scoperte
È possibile il ricorso alla bomba? Sì. E cosa possiamo fare noi? Quasi niente, salvo fare esercizio di trasparenza. Possiamo rivendicare che le misure di risposta alla minaccia siano rese pubblicamente note. Sarebbe una prova di responsabilità
Rimuginavo da giorni sopra un pensiero esposto al ridicolo, che chiamerò della trasparenza sull’atomica. Poi la ridda di pronunciamenti e avvertimenti attorno all’atomica mi ha convinto a prenderlo sul serio. A costo di contraddirmi, anche, perché ho creduto presto, e più che creduto sentito, che un uomo come Putin potesse spingersi a ordinare un’esplosione nucleare, e che ne fosse tentato da un impulso intimo più forte di ogni calcolo militare. Un dilazionato desiderio di grandezza, e poiché in Putin non c’è grandezza se non nella distruzione, che cosa c’è di più grandioso che la distruzione nucleare? Alla mania di grandezza si accompagna anche una pusillanimità, ed ecco che i 77 anni di tecnologia trascorsi dall’Enola Gay hanno reso disponibili congegni e nomi differenziati – tattici contro strategici – che promettono un uso della Bomba la cui enormità simbolica non coincida con la materiale definitività. In apparenza, la plausibilità della evoluzione della guerra d’Ucraina dall’armamento convenzionale a quello atomico è venuta maturando lungo i mesi. In realtà, stava già dopo i pochi giorni della bancarotta dell’invasione, quando la marcia immaginata senza ostacoli si infranse contro la decisione della grandissima parte di un popolo cui è sembrato davvero che la morte fosse preferibile alla resa. C’era un divario così smisurato fra il proposito russo e l’esito da rinviare alla smisuratezza opposta: la Russia non può perdere perché la Russia ha la Bomba.
Questa sentenza infantilmente ridicola – niente è infantilmente ridicolo quanto il virilismo dell’uomo potente – ha subito contagiato coloro per i quali il compito degli ucraini era quello di arrendersi: di farlo per sé stessi, perché non si può vincere né pareggiare contro un nemico atomico, e comunque di farlo per tutti noi, perché il ricorso all’atomica ci minaccia tutti, e un popolo minore non può mettere a repentaglio l’Umanità. Così gli avversari della resistenza ucraina sono stati animati dalle passioni più diverse, generose e ignobili, ma hanno avuto in comune l’argomento, sinceramente sentito o pretestuosamente addotto, del rischio atomico. Ci hanno creduto perché motivava la loro angoscia, o hanno mostrato di crederci, perché faceva al loro scopo. Propongo di lasciarli in pace, e di trattare di quelli – cui appartengo – che hanno ammirato e sostenuto la resistenza ucraina. Fra loro, per un comprensibile riflesso opposto, ha avuto corso la convinzione che l’impiego russo dell’atomica fosse da escludere, o la minimizzazione del suo rischio. E’ notevole che i militari, o gli esperti militari, se ne mostrassero particolarmente sicuri. (Ci sono stati militari sull’altro versante, ostile alla resistenza degli ucraini e smanioso della loro resa. E fra loro dei generali, molto citati: è singolare come ai generali, e specialmente ai “generali della Nato”, basti sostenere che la Nato abbaiava alle porte della Russia per diventare i beniamini di tanti pacifisti assolutisti). Quanto ai militari solidali con l’Ucraina, penso che non vogliano credere a una pazzia come il ricorso ai congegni nucleari perché inficerebbe la razionalità da cui dipende la loro analisi delle forze in campo, delle strategie e delle competenze.
Sarebbe anche un modo di dire non al nemico, ma alla gente del nemico, di che cosa si sta trattando
E’ un po’ come chiedere all’autore di un manuale di scacchi di considerare la mossa che rovescia la scacchiera e il tavolo. Abbiamo fatto in questi mesi una scorpacciata di letture di analisi militari, col piacere di infilarsi dietro le quinte di un grande spettacolo, e con l’apprezzamento un po’ scettico del profano. Va da sé che il profano sia consolato di sentirsi dire da chi se ne intende che la bomba atomica è un falso problema, è solo un bluff, non è un vero rischio. Anch’io. Ma io, profano profanissimo, temo che la rassicurazione degli esperti militari sia stata già smentita. Essa dice: che Putin è un criminale dissennato ma non suicida, e che comunque i suoi cortigiani, a cominciare dagli almeno altri due addetti alla serratura della valigetta, preferiscono vivere e tengono famiglia, impulsi più forti della paura o della devozione al loro boss. E che, soprattutto, la Nato, e per lei gli americani, hanno fatto sapere per tempo a chi di dovere, e per filo e per segno, che terribile castigo Putin tirerebbe addosso a sé e al proprio paese se ardisse di ricorrere alla Bomba. L’argomento sembra forte, e del resto si appoggia alla constatazione che il proliferare di congegni atomici, fin nelle mani di veri invasati e imbecilli da legare, non è finora passato ai fatti, nemmeno nella Guerra fredda. Unico caso in cui una “conquista” del progresso umano, sperimentata in corpore vivi due volte di seguito, non ha più avuto repliche.
E’ il principio della deterrenza, versione triste della pace universale, e promozione dell’arma più distruttiva in un arnese di dilazione della distruzione. Oggi la dilazione sembra arrivare a scadenza, se non ancora nel fatto compiuto, nelle parole pronunciate e compiaciute, che sono a loro volta un fatto compiuto irreversibile, com’è per i tabù. Bene: fino a qualche giorno fa la minaccia russa dell’atomica aleggiava sull’orizzonte della guerra d’Ucraina, delegata allo scemo Medvedev o alle portavoci, e alle stesse frasi di Putin, ma con una prudenza allusiva. Poi è venuta la controffensiva ucraina, un colpo micidiale alla tenuta russa, una smentita mortificante allo stallo delle operazioni. E la risposta disperata dei finti referendum, a pretendere che d’ora in poi l’invasore invaso ha il diritto di difendersi “con ogni arma”. C’è da credere che Stati Uniti e Nato abbiano fatto sapere per tempo a Putin e ai generali che cosa avverrebbe se dessero la stura alla loro smania atomica. Ma Putin ha mostrato di fottersene, spingendosi al limite fra minaccia dell’atomica e sua attuazione.
Dunque: non c’è più ragione per escludere l’eventualità del ricorso all’atomica, e ce ne sono molte per ritenerla possibile. Se è vero, che cosa possiamo fare, noi inermi che sosteniamo la resistenza militare e civile degli ucraini? (Ho sentito la risposta spiritosa e vile: Smetterla di sostenerli! Non perdo tempo, del resto viene da chi si è sempre augurato la sconfitta degli ucraini salvo graduare l’ipocrisia sulle convenienze del momento).
Una risposta è che non c’è niente che possiamo fare. Che proprio lo splendore delle conquiste “dell’Uomo”, fino alla fissione nucleare, ha escluso i miliardi di esseri umani da ogni influenza su una scelta fatale. In sostanza: noi possiamo fare qualcosa, poco, tardi, per rallentare la lunga distruzione civile delle condizioni della nostra vita sul pianeta. Non possiamo fare niente per impedire la precipitosa distruzione coi mezzi militari che abbiamo creato – siamo creatori infatti, non dal nulla ma nel nulla. Lo scellerato che potrà decidere di usare del potere militare nucleare sarà solo e ne sarà esaltato; gli sventurati cui incomberà di rispondere saranno soli a loro volta. Bene, sappiamo com’è, l’abbiamo visto tante volte al cinema.
La ragionevole eventualità di prendere atto che le armi che abbiamo accumulato sono troppe e troppo micidiali
Forse c’è una cosa che possiamo fare. Possiamo rivendicare che le misure di risposta alla minaccia dell’atomica siano rese pubblicamente note. Sì, vedo l’obiezione, l’efficacia militare ha bisogno del segreto, non c’è consultazione democratica al momento di colpire, quando e come. (La democrazia, caso mai, distingue chi colpisce per aggredire e chi per difendere, ma anche qui la differenza può farsi stretta). Eppure sarebbe una prova di responsabilità da parte di coloro cui toccasse di decidere, e di responsabilizzazione di coloro che dalla decisione fossero coinvolti. E sarebbe anche un modo di dire non al nemico, ma alla gente del nemico, di che cosa si sta trattando, anche in suo nome e abusando del suo nome. Alla prima obiezione, quella pratica, che si renderebbe il gioco facile al nemico, non credo: la rivelazione dei piani militari è un’altra cosa. Quando Stoltenberg, segretario generale della Nato, avverte la Russia delle “serie conseguenze” che seguirebbero il ricorso all’atomica, dice qualcosa di insieme allarmante e inefficace, e perfino buffo. L’intero gergo del ricatto e della minaccia politica è fatto così: “le conseguenze saranno catastrofiche”, “una reazione che non avete mai visto prima nella vostra storia” – “e non è un bluff”. Lasciare all’immaginazione, spaventare. Oppure il pensionato Petraeus entra nel merito, “solo per darvi un’ipotesi”: “Penso che risponderemmo eliminando ogni forza convenzionale russa, che siamo in grado di vedere e identificare sul campo in Ucraina e anche in Crimea, e ogni nave nel Mar Nero”. Che la risposta sia questa o un’altra, non sarebbe bene che a darla, e non “per ipotesi” personale, fossero i suoi responsabili, e che ad ascoltarla e rifletterci fosse il mondo e non le orecchie del Cremlino?
Se avvenisse, se a tutti fosse chiaro a che punto siamo, e a quali criteri i diversi protagonisti si ispirano; e soprattutto che alternative ipotizzano, questo sì, alle mosse obbligate cui sarebbero costretti: non sarebbe più necessario a noi, al Papa, ai pacifisti, ai russi e ai buriati e agli ucraini, e ai cinesi e ai taiwanesi, misurarsi con la realtà? Rendere trasparente una guerra che vuole diventare atomica, sembra un paradosso, non lo è. E sarebbe una risposta allo spazio smisurato che la propaganda si è presa ai nostri giorni. Il disarmo è un’utopia, bella ma utopia. L’eventualità di prendere atto che le armi che abbiamo accumulato sono troppe e troppo micidiali per tutti, e di giocare ad armi e carte scoperte, stride alle nostre orecchie disabituate, e figuriamoci alle orecchie del Cremlino, ma è ragionevole. E’ a portata di mano. E forse potrebbe diventare il vero discrimine fra i modi di vivere e immaginare la vita, e la parte da cui stare.