PICCOLA POSTA
Il massacro di Zaporizhzhia. Appunti di viaggio, di guerra e di storia sulle sponde del grande fiume
Tutt’attorno ci sono i russi, ma la città è in mano agli ucraini ed è un bersaglio permanente dei missili putiniani. Dal 3 al 10 ottobre almeno 44 persone uccise – bambini, anche. Le bombe sui condomini, di giorno e di notte
Stanno massacrando Zaporizhzhia, la città. Dal 3 al 10 ottobre almeno 44 persone uccise – bambini, anche. Tiro fuori il diario del mio soggiorno di luglio, un po’ più di una settimana. Prima però rispieghiamo: Zaporizhzhia, in ucraino, Zaporozhye, in russo, è il nome sia della regione, l’oblast’, che della città capoluogo. Di qui una imperterrita confusione. La centrale nucleare, in mano ai russi, è a 50 chilometri dal capoluogo, e il suo centro abitato si chiama Enerhodar-Energodar. La città capoluogo è in mano agli ucraini, e prima dell’invasione aveva fra i 700 e i 750 mila abitanti; molti sono sfollati, molti altri vi si sono rifugiati dalla provincia. Immaginate uno smargiasso che invade il Piemonte e lo occupa con le sue bande armate, tranne Torino e il suo circondario, che gli resistono. Lo smargiasso indice un referendum a mano armata e lo vince al 98 per cento, e dichiara che d’ora in poi, e “per sempre”, il Piemonte è suo – tranne Torino. Il dettaglio lo irrita a tal punto che fa piovere missili sui condomini, di notte, quando i torinesi sono a casa e dormono, e li ammazza a decine, a ventine.
Torino va bene, oltre che per la dimensione, per il Po: Zaporizhzhia (il nome vuol dire “oltre le rapide”) è divisa in due dal Dnipro, che è più lungo del Po di quasi 4 volte. Il gran fiume è qui più imponente che altrove, ha sponde alte e rocciose e spiagge sabbiose, scogliere erte e isole, e specialmente una, la più grande, Khortytsia, che ospitò il Sic, la fortezza e il santuario della comunità cosacca, delle sue assemblee egualitarie (ma senza donne e bambini), delle feste e dei canti e delle bevute; e ne custodisce la memoria. E appena a ridosso la colossale e temeraria diga della centrale idroelettrica, un arco di 1.300 metri, vanto dell’architettura e della tecnologia sovietica (1927-1932). E Zaporizhzhia è anche al centro del territorio in cui infuriò, nella tempesta del primo dopoguerra (1918-21), la rivolta contadina contro tutti i padroni stranieri e domestici. In un paese a un centinaio di chilometri di distanza, dove passa oggi la linea del fronte, Huliaipole, nacquero strenui combattenti anarchici, compreso il leggendario Nestor Machno.
Ci sono pochi luoghi altrettanto insidiati dal peso schiacciante della storia. (Machno fu anche l’eroe di adepti italiani della lotta armata dei ’70-’80, non tanto per una ispirazione anarchica, credo, quanto per una lettura corrente che ne faceva un antesignano e uno specialista di espropri proletari). La vecchia storia di Machno è una delle ragioni che mi hanno portato a Zaporizhzhia, ma poi non ho trovato guidatore disposto ad accompagnarmi a Huliaipole, in un momento troppo rischioso, e mi sono guardato dall’insistere. Il 20 luglio un bombardamento di razzi a lancio multiplo aveva fatto vittime civili. A quella data, erano più di mille le case distrutte dai bombardamenti nel paese spopolato. Venivo da Dnipro, avevo preso un albergo nella Città Vecchia, a Olexandrovsky – Aleksandrovsk era il nome della città fino al 1921. E’ uno dei sette distretti, il più appartato, scoprirò. Ho a fianco il Teatro della musica e del dramma, di un classicismo sovietico, chiuso, poco oltre il Museo Regionale, ricco di cimeli cosacchi, chiuso, la gran cattedrale ortodossa della Santa Protezione, sempre aperta, e un vasto mercato all’aperto. Comincio da lì, vado attorno, prendo un solito tram per vedere dove mi porta, mi porta fuori mano, faccio il giro e torno indietro. La prima cosa che voglio vedere è il fiume, c’è un giovane poliziotto che prende il caffè a uno dei tanti chioschetti poveri della piazza, provo a chiedere a lui. Niente inglese, mi arrangio col russo (anche a Zaporizhzhia si parla soprattutto russo): so dire fiume, Dniprò, vedere, voglio. E’ attento, si fa dare un foglietto e una biro dalla signora rintanata nel chioschetto. Scrive, e mi consegna: Serhij, il suo nome, seguito dal numero di telefono. Sono colpito dalla premura, ringrazio, torno sul mio scopo.
La signora interviene, ha un tono efficiente, è un po’ anziana, grassa (si può dire così, credo, le sta bene) e benevola. C’è uno scambio fra lei e il poliziotto, si conoscono. Mi spiega che Serhij mi accompagnerà al fiume con l’auto di pattuglia, che aspetta lì vicino, e lui va a parlare coi colleghi. Torna, dispiaciuto, adesso non possono allontanarsi. Allora la signora mi fa segno che ci pensa lei, apre la porticina del baracchino, va a parlare col guidatore di un’auto malmessa parcheggiata là vicino, riviene e mi dice che mi porterà lui, che è un tassista. Si chiama Viktor, dice. E lei?, chiedo. Svetlana. Ringrazio, chiedo quanto dovrò pagarlo – il prezzo del taxi si fissa prima. Niente, dice, ha fatto lei. A questo punto l’abbraccerei, e infatti lei mi sommerge in un abbraccio. Di lì a poco sarò sulla spiaggia del Dnipro, informato sulla famiglia di Viktor, una figlia in Germania col nipotino, un figlio soldato, arrivo ad accennare anche a Machno: “Nestor Ivanovic!”, esclama. Del Dnipro riparleremo, mi resta da dire del giorno dopo e del gran mazzo di rose che porto a Svetlana per guadagnarmi un altro abbraccio. Mi piace raccontare questa storietta, non perché non sappia che avrebbe potuto succedermi anche al mercatino di una città russa, ma qui siamo in una guerra, vicino al fronte, e la città è bombardata. Viaggiare è così importante anche perché quando succede qualcosa di molto doloroso in un posto lontano, e vi è successo di conoscere qualche persona di quel posto, tutto cambia: quando, ogni paio di giorni, sento: “Missili fanno strage a Zaporizhzhia”, mi riguarda da vicino.
Dunque: il mio primo Dnipro locale si chiama Central Beach, ha eleganti stabilimenti balneari, cabine, piscine, ristoranti, ed è così frequentato che ne resto sorpreso: qualcuno fa sci d’acqua, ci sono bagnanti nel fiume, c’è musica, rimbombo di artiglieria – “Vasylivka”, mi dicono – e odore di spiedi. A Odessa e Dnipro mi aveva stupito, a Zaporizhzhia non me l’aspettavo davvero. Parlo con le ragazze e i ragazzi che controllano le borse degli avventori, dei loro studi, dei loro amici al fronte, di quelli che hanno perso. Mi trovo in questa improvvisa vacanza d’estate – per poco, prima del tramonto la spiaggia si svuota, il coprifuoco anticipa il rientro. In aprile missili russi erano stati indirizzati sull’isola di Khortytsia. Tuttavia la spiaggia mi aveva illuso che Khortytsia fosse aperta, fortezza, chiesa, musei e riserva naturale. Le persone che interpello non sanno, non devono averci pensato. Bisogna prendere il filobus fino a Metallurgia, dicono, poi il piccolo bus per Khortytsia. Sul filobus una ragazzina e la sua sorellina si incaricano di me, prima insegnandomi che a Zaporizhzhia non si paga il biglietto, poi che dovrò scendere alla loro fermata. Rassicurandomi, perché non si arriva mai. La Prospettiva Soborny (Lenin, fino al 2016), che percorriamo tutta, è larga 8 corsie e lunga 11 chilometri – una delle vie più lunghe d’Europa. Il piccolo bus attraversa spettacolarmente la Centrale idroelettrica e poi arriva al distretto Khortyvsky, ma resta alla larga dall’isola. Bisogna che ci vada a piedi, mi dice l’autista. Saranno due chilometri, due e mezzo, e muove la mano come a dire suppergiù. Lo si dice dappertutto, ma a Zaporizhzhia è vero: due chilometri due e mezzo sono cinque. Penso che non lo dicano per imprecisione, ma per incoraggiamento. E’ un mezzogiorno di luglio, per giunta. Vado, e finalmente arrivo all’imbocco di un ponte. Ha le sponde di ferro, la carreggiata larga di asfalto sconquassato, è a picco sul fiume, di alcune decine di metri, trema al passaggio rado di grossi camion. All’altro capo c’è un check-point di militari che mi danno appena un’occhiata.
A piedi, non c’è anima. Arrivo a uno spiazzo in cui cartelli e frecce illustrano la mappa della città dei cosacchi, lascio lo stradone e mi infilo nell’itinerario. Faccio un tratto non lunghissimo, prendo qualche sentiero nel bosco, risbuco su un vialetto di ghiaia, scorgo un’auto parcheggiata e mi ci dirigo, ne scendono due militari armati e mi arrestano. Hanno un’aria abbastanza dura. Dico chi sono, giornalista italiano, mostro l’accredito ucraino, uno telefona l’altro mi tiene a bada, ma ha già cambiato aria, sono un vecchietto sudato con una mezza bottiglia di minerale in mano. In breve la cosa si scioglie, ma non rinunciano a trattarmi da scemo: non so che è vietato, non ho visto che è minato? No, infatti. Ti chiamiamo un taxi, intanto puoi andare fino a quello spiazzo con le statue di pietra, tanto gli edifici non potresti comunque vederli, ma cammina solo sulla ghiaia e non uscire dalla nostra vista. Eseguo, risarcisco disciplinatamente le statue dei mesi in cui non hanno più goduto di uno sguardo, leggo dei versi di Taras Schevchenko incisi su una lapide in memoria dell’emozione della sua visita alla Sic cosacca, li confronto con la mediocrità della mia. E’ la guerra, riserva al viaggiatore privilegi e rinunce: in tre mesi a Odessa non ho potuto vedere la scalinata Potjomkin, e in fondo oggi ero il solo, militari a parte, che abbia calcato il glorioso suolo dei cosacchi Zaporoghi.
I cosacchi: ne ho fatto una scorpacciata di letture, in questi giorni, si sono aggiunte alle favolose degli anni giovani, Taras Bul’ba, La figlia del capitano, L’armata a cavallo, Il placido Don... (E più tardi i cosacchi dell’Operazione Ataman nella Carnia del 1944-45). Ci ero arrivato vicino un quarto di secolo fa, ai confini della Cecenia, dove i cosacchi del Terek, a differenza di quelli del Don, erano stati spesso amici dei ceceni ribelli. Ma ancora mi sembra di non aver capito chi siano i cosacchi, se una nazione, un modo di andare per il mondo, una professione, uno stato d’animo... Un popolo, certo. (“Tutto il popolo russo desidera essere cosacco”, Tolstoi). Un ciuffo sulla testa rasata, come nella gran tela di Iljia Repin’, “I cosacchi dello Zaporož’e scrivono una lettera al sultano Mehmed IV di Turchia” e nel magnifico falso che l’accompagna. (“Che gran cavaliere sei, tu che non riesci ad uccidere un riccio col tuo culo nudo?”). In effetti, a Dnipro e ancora di più qui qualche giovane soldato con quel ciuffo l’ho incontrato e l’ho clamorosamente congratulato. L’Ucraina di oggi, specialmente in questa sua parte, ha rivendicato tutto quello che è stato suo attraverso una prepotente storia d’altri, e i cosacchi vi tengono un posto illustrissimo. (Ne fa le spese la zarina Caterina che dopo averli lasciati correre e aver avuto paura dell’impostore Pugachev, nel 1775 decise di farla finita con loro, e con la Sic di Khortytsia). L’inno ucraino, sapete, finisce coi versi: “Daremo le nostre anime e i nostri corpi per la nostra libertà, e mostreremo che noi, fratelli, siamo di stirpe cosacca”. E perfino quel “Batko” Machno contadino e discepolo di Kropotkin gli viene associato, e una delle sue più robuste biografie si intitola così: “Il cosacco dell’anarchia”. Mitico Machno, bello, zoppo, basso, malato, terrore di tutti gli eserciti, sconfitto e morto oscuro in esilio. Qualcuno ne ha auspicato la resurrezione nell’Ucraina indipendente, per riscattarla da Bandera o anche da Petliura: è chiedere molto. Ma oggi a Hulaipole, ha raccontato il sindaco Serhiy Yarmak, i combattenti hanno dato alla loro base il nome di Machno. Il 5 ottobre scorso un ennesimo bombardamento ha ucciso il vicesindaco, Oleksandr Savytskyi, e un’altra persona.
Avevo protratto il soggiorno a Zaporizhzhia, ci vivevo bene. Mi capitò un impegno a Dnipro, e partii. L’ultima sera ero tornato al fiume, ma avevo sbagliato strada ed ero arrivato a una darsena in disarmo, con un paio di pescatori alla canna, qualche cane macilento e ferraglia arrugginita. Al ritorno rischiavo di fare tardi, non venivo a capo dell’applicazione e chiesi a un signore col cane, ben nutriti cane e padrone, di chiamarmi un taxi: mentre aspettavamo mi riassunse la sua vita, succede così in guerra. Di cognome si chiama Sergej Gorbaciov, se n’è quasi scusato, come per uno scherzo da prete. A Dnipro del resto andai in un albergo Astoria, in cui Machno a suo tempo aveva insediato il suo quartier generale, e a decidermi era stata la notizia del mio amico Dmitro: che Nestor Machno rientrava a tarda sera e saliva alla sua camera al secondo piano in groppa al suo cavallo. L’albergo ora era molto decaduto ma ho preso la stanza al secondo piano, benché l’ascensore non funzionasse. Si trova, l’Astoria, nel pieno centro di Dnipro, in Dmytra Yavornytskoho Avenue. Yavornytskoho (1855-1940) era stato uno storico specialista dei cosacchi, campioni della libertà ucraina, e fu denominato “il padre degli Zaporoghi”. Fino al 2016, il grande viale era intitolato a Karl Marx. Sulla facciata dell’albergo c’è ancora una targa di marmo nero come quelle di cimitero col ritratto, e dice che nel 1919 Machno è stato lì e ha lottato per la libertà.