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Sulla pace in Ucraina il discorso politico è meno ipocrita di quello dei leader religiosi

Adriano Sofri

Che cosa impedisce a esponenti cristiani e cattolici, come quelli che hanno indetto l’incontro "Il grido della pace" della Comunità di Sant'Egidio, di pronunciare le frasi di Macron e Mattarella - "La pace è solo quella che gli ucraini decideranno"?

Ho letto più attentamente che ho potuto le cronache della prima giornata dell’incontro romano promosso dalla comunità di Sant’Egidio col titolo “Il grido della pace”. E mi sono posto delle domande fastidiose, una in particolare: se la laicità, cioè la reciproca indipendenza fra fede religiosa e governo della vita sociale, renda inevitabile una divergenza fra il discorso politico e genericamente civile e il discorso ispirato dalla religione. La domanda diventa più fastidiosa quando induca a chiedersi se il privilegio del discorso religioso sia l’ipocrisia, di cui il discorso politico può fare a meno. Proviamo a vedere. L’incontro romano ha due principali interlocutori politici: il capo dello stato francese e il suo collega italiano. Ora, ridotte all’essenziale, le posizioni di Macron e Mattarella sembrano coincidere sui punti decisivi: il giudizio sulla responsabilità russa della guerra d’Ucraina, la solidarietà con la resistenza degli ucraini, il dovere di aiutarla materialmente con il denaro e con le armi.

Macron: “La pace è solo quella che gli ucraini decideranno, quando lo decideranno… Oggi la pace non può essere la consacrazione della legge del più forte né il cessate il fuoco che definirebbe uno stato di fatto. Ora è il momento di parlare con il popolo russo perché non è la sua guerra”. Mattarella: “La sciagurata guerra mossa dalla Russia rappresenta una sfida diretta ai valori della pace, mette ogni giorno in grave pericolo il popolo ucraino, colpisce anche il popolo russo, genera drammatiche conseguenze per il mondo intero. Quella aggressione stravolge le regole, i princìpi e i valori della vita internazionale… Bisogna mirare a una pace che non ignori il diritto a difendersi e non distolga lo sguardo dal dovere di prestare soccorso a un popolo aggredito”.

La domanda seccante dunque è: che cosa impedisce a esponenti religiosi cristiani e cattolici, come quelli che hanno indetto l’incontro, e ai loro principali referenti, per esempio al cardinale don Matteo Zuppi, o al Papa Francesco, di pronunciare le stesse frasi? Il fatto che la Chiesa ha per definizione una visione universalistica, al contrario della parzialità del punto di vista politico? Ma questa è una riduzione indebita del punto di vista politico, tant’è vero che una sua interpretazione più stretta se ne aspetterebbe una diserzione dalla solidarietà con l’Ucraina, costosa com’è per i suoi rappresentati – la pace o il condizionatore. La politica può rivendicare per sé, e lo fa, princìpi universali come la libertà, la democrazia, il ripudio della potenza e della prepotenza.

Ma, si può obiettare, la Chiesa vuole preservare la possibilità di parlare a tutti i contendenti e di favorire così il ripristino del dialogo. Dunque la condizione del dialogo è la reticenza e il torto fatto alle vittime? E la prerogativa della Chiesa è l’ipocrisia? E’ difficile trovarne una conferma nella lettera e nello spirito del Vangelo. Di un atteggiamento simile il campione rischia di essere l’ignobile Erdogan. La Chiesa, si dirà, è “contro tutte le guerre”. Ma non è vero, o almeno non lo è stato lungo tutta la sua storia, e ancora poco fa, e la Chiesa non si è adattata nemmeno oggi a chiamare guerra qualunque ricorso alla legittima difesa. Quanto alla nonviolenza, è una scelta magnanima e intrepida, riguarda la coscienza e il corpo individuale, risponde, quando ne ha la forza, all’esortazione a offrire l’altra guancia – ma non la guancia di Kherson. Cerchiamo allora nelle cronache.

Il promotore dell’incontro romano, erede di cimenti cruciali in luoghi di tremende guerre civili come il Mozambico o l’Algeria, Andrea Riccardi, vede in Macron il possibile agente politico di un negoziato che porti al cessate il fuoco e alla pace, e dice: “Nel mondo globale le guerre non sono un conflitto nero contro bianco ma una molteplicità di interessi e scontri”. E’ forse questa la distinzione della coscienza religiosa dalla politica, l’attenzione alla famosa complessità, il rifiuto del manicheismo (il manicheismo è stato ed è tuttora un connotato decisivo delle religioni)? E’ difficile ammetterlo, perché il richiamo alla complessità è comunissimo alle diverse posizioni politiche, e caso mai è diventato a volte, come nell’adesione di Francesco alla formula della Nato che abbaiava alle porte della Russia, a sua volta l’espediente di una semplificazione.

La complessità è certo di questo mondo, ma non è il colpo al cerchio e il colpo alla botte. Domenica, mentre si teneva l’incontro romano, alla chiusura della Buchmesse era premiato uno scrittore ucraino, Serhij Zhadan, e se ne leggevano le dichiarazioni: “Qual è il confine tra dire Sì alla pace e No alla nostra resistenza? Non c’è pace senza giustizia. Come civili diamo una mano alle truppe non perché vogliamo la guerra ma perché vogliamo la pace. Il mondo dovrebbe chiedersi se vuole ancora inghiottire un male incontrollabile in nome di guadagni finanziari e di un falso pacifismo”.

Ecco: qual è il confine fra l’auspicio della pace e il ripudio della resistenza ucraina? Accanto all’intervista a Riccardi, la Stampa pubblicava ieri un testo di Franco Cardini, dedicato all’appello degli intellettuali da lui condiviso. Cardini è un nostro notevole eurasiatista, uomo laico, e svolge con più sicurezza l’argomento della complessità: “Certo, bisogna riconoscere anche alcune ragioni alla Russia, e non fermarsi alla dicotomia aggressore aggredito… Sarebbe poi opportuno mettere da parte i discorsi atti a leggere il conflitto come scontro fra due blocchi, democrazie da una parte, totalitarismi o autocrazie dall’altra. Questo modo manicheo di leggere i conflitti in atto altro non è che la stanca ripetizione dello scontro di civiltà già ripetuto a proposito di occidente e islam, e adesso riproposto per leggere situazioni ben più complesse”. Il titolista della Stampa aveva tagliato corto: “Riconoscere le ragioni russe per evitare catastrofi nucleari”. Cardini sa semplificare: “Il paese vuole la pace, l’unico ostacolo è la volontà americana”. Gli ucraini al guinzaglio abbaiano.

Ieri c’è stato un vasto incrocio di telefonate fra il generale Shoigu e i titolari dei maggiori paesi della Nato. Incoraggiante, si sarebbe detto. Serviva solo ad avvertire dell’intenzione ucraina di bombardarsi addosso con una “bomba sporca” per darne la colpa ai russi. Ucraini e alleati Nato hanno risposto per le rime. Delle telefonate si è anche detto che valevano ad accertare meglio le circostanze in cui la Russia avrebbe impiegato la bomba atomica. Ecco: c’è un confine oltre il quale la complessità cede alla semplicità. E’ l’invasione militare di un paese indipendente. E, dopo il suo fallimento sanguinoso e vergognoso, è la minaccia dell’impiego della bomba atomica.

Quel doppio confine è stato travolto da una parte. C’è davvero qualche ragione che spieghi la lingua diversa dei capi di stato e degli esponenti religiosi? Ne so immaginare una sola: che gli esponenti religiosi sperino di opporre alle parole dei responsabili politici, pur riconoscendole fondate, dei gesti diversi e peculiari. Domenica ascoltavo in ritardo l’Angelus del Papa e l’ho sentito dire che si iscriveva subito a un viaggio da pellegrino cui lo invitavano dei giovani. In Ucraina? – mi sono chiesto. Ho aspettato il telegiornale successivo, si trattava del Portogallo, l’anno prossimo a Lisbona per la Giornata mondiale della Gioventù. Sarà bello. I gesti del resto sono personali.

Il 30 settembre il rapper russo Ivan Petunin, noto come Walkie, 27 anni, si è suicidato nella sua città, Krasnodar’. Ha inciso un videomessaggio. “Ho scelto di rimanere per sempre nella storia come un uomo che non ha sostenuto quello che è successo… Non sono pronto a prendere le armi e uccidere membri della mia stessa specie. Siamo ostaggio di un maniaco”. Walkie era esonerato dal servizio militare. Si è buttato giù dalla finestra. Doveva essere un po’ strano. Non se n’è parlato neanche tanto.