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Piccola Posta

Saluto un amico: “L'anno prossimo a Kherson”. Ma potevamo fare prima

Adriano Sofri

L'Ucraina era un esempio, un'occasione, ma adesso l'asse del mondo si è spostato verso tutto quello che non è "occidente". Da Putin, la sua ritirata, all'Iran e la sua repressione di ragazzi e ragazze che pretendono il futuro

Io, che sarei andato piuttosto a manifestare a Roma, dicendo No alla guerra di Putin e Viva la resistenza ucraina, ho rinunciato da tempo a discutere e convincere chi ci è andato, o ci sarebbe andato, dicendo No alla guerra e No alle armi all’Ucraina. Come si fa a non dire “No alla guerra”, certo. Ma quando la guerra c’è, e uno l’ha scatenata violando ogni legge e ogni morale, e un altro si difende, dire solo No alla guerra li coinvolge tutti e due, anche se si ha la cortesia o l’ipocrisia di aggiungere, in nota, che uno è martoriato (tanto più che è martoriato anche l’altro, il suo gregge da mattatoio). Bene, tutto ciò è così evidente che bisogna rinunciare alla speranza che venga visto: non c’è peggior sordo eccetera.

 

E poi io non rinuncerei mai ad amicizie e affetti che hanno dato senso alla vita: non siamo arruolati, e anche quando finissimo per qualche scherzo del destino in trincee opposte, potremmo metterci d’accordo di uscirne insieme per andare a pisciare e scambiare due chiacchiere – senza scambiarci una sigaretta, perché abbiamo smesso anche di fumare. Forse lì ci riprenderebbe la vecchia mania di discutere e convincere, e se no mandare a quel paese, quelle belle diatribe sul mondo del genere: “Guarda come l’hai ridotto!” e: “Ah, io l’ho ridotto? E tu?” eccetera. Difficile liberarsi del tutto dalle abitudini. Ho un’abitudine invincibile ad avere, e se no a immaginare di avere, qualcuno, o meglio qualcuna, ogni volta che si tratta di guardare qualcosa di bello – “Guarda ora la luce sul fiordo!” – o di bruttissimo – “Guarda, questo era il teatro di Mariupol!”-.

 

Sono giorni che digrigno i denti borbottando: “Guarda che cosa stanno facendo i russi di Putin: chiedendo munizioni a Kim Jong-un mentre Kim Jong-un spedisce missili a bizzeffe tutto attorno, chiedendo droni e missili a Khamenei e a Raisi, mentre i loro basij ammazzano violentano e bastonano le ragazze e i ragazzi iraniani e i ragazzi iraniani fanno saltare i turbanti dei mullah”. Guarda, guardate, porca miseria! C’è un’autopsia del mondo, basta non distrarsi. L’altro giorno, quando in diretta televisiva il generale Surovikin ha chiesto al generale Shoigu di autorizzare la ritirata dell’esercito russo dalla città di Kherson, ho pensato per la prima volta davvero, benché a una percentuale del 18 per cento più o meno, che Vladimir Putin possa essere pensionato.

 

A Kherson, com’è evidentissimo, gli invasori russi hanno subìto una disfatta, tanto più umiliante perché tutti gli osservatori, compresi alcuni bravi ma troppo confidenti nell’analisi solo militare, avevano escluso che la liberazione della città potesse arrivare prima del presunto stallo imposto dall’inverno. Hanno riluttato a credere che la ritirata avvenisse davvero, anche dopo quel grottesco siparietto televisivo dei due generali – si farà una canzone, nella Madrid golpista erano quattro, los quatro generales, e los milicianos de las bombas se reían, mamita mía. Ma i boss russi, pur allo sbaraglio come sono, era difficile che per rifarsi dell’inganno degli ucraini, che avevano buscato el levante de Kharkiv por el poniente de Kherson (Giuliano), e ora hanno buscato direttamente Kherson, presentassero il loro espediente in mondovisione.

 

Le hanno sbagliate tutte, tranne una, la peggiore: mettere all’ordine del giorno l’atomica, e farne il principale – l’unico – appiglio dei fautori o dei rassegnati alla resa ucraina. Dovrà arrivare anche quella allo scioglimento ormai, perché è stata nominata e non può più essere esorcizzata superstiziosamente, come abbiamo fatto (quasi) tutti per decenni. Per finire oggi, dirò che do a una percentuale ancora inferiore al 51, ma più consistente, l’eventualità del cessate il fuoco e del negoziato: il 34 per cento, diciamo. Ma solo nell’ipotesi che Putin sia ancora saldamente in sella, e che sia a suo modo ancora compos sui, padrone di sé, e non posseduto da paranoia, menzogne di cortigiani, esaltazione ambientale – difficile infatti abitare al Cremlino così a lungo, e disinfettandosi le mani cento volte al giorno, senza parlare da soli. 

 

Il dubbio che possa essere ancora lucido mi è venuto specialmente ascoltando e guardando le sue quattro ore di discorso e risposte alle domande (gentilissime) del Club Valdai il 27 ottobre scorso. Lì c’era un’idea, sia pure arrangiata tardi e come mera riparazione al disastro combinato con l’invasione e l’illusione di fare dell’Ucraina un solo boccone: una specie di caso della volpe e l’uva. Là, c’era stata solo l’abitudine ormai inveterata agli atti di forza perpetrati nell’impotenza del resto del mondo: Cecenia, Georgia, Crimea, Siria… Era la volta di Kiyv, ha sbattuto. A otto mesi di distanza e una serie di knock-down, diceva al (terzo e quarto) mondo: è venuta la nostra ora, io ho rotto la cortina che ci faceva tutti emuli invidiosi del benessere e della licenziosità “occidentale”, se non della libertà. La libertà è infatti il verme nella mela. L’Ucraina era solo un esempio, un’occasione, ci sono andato, posso tornarne. Ma ora è chiaro a tutti che l’asse del mondo si è completamente spostato verso tutto ciò che non è “occidente”. 

 

Più o meno così, nella mente oltre che nelle parole, singolarmente affabili, di Putin, veniva presentata la missione compiuta in Ucraina, ormai indifferente ai risultati sul campo: un’altruistica bandiera sventolata agli occhi di grandi e piccoli del nuovo ordine, Cina e India, America latina e Africa, Transnistria e Serbia, e manipoli di militanti del No alla pace e del multipolarismo a trazione autocratica. Una pretesa certo molto inferiore alle sue possibilità e a quelle del suo gran paese come l’ha ridotto, ma pur sempre una via d’uscita. Anzi, nemmeno una pretesa, un’offerta a mezzo mondo: ho fatto il lavoro sporco per voi, ve lo lascio in eredità. Ecco: man mano che venivo riassumendo questa impressione, la percentuale di probabilità mi si assottigliava davanti. Ora le assegno un 27 per cento scarso, e chiudo, con un piccolo ricordo personale. Ho avuto il privilegio di farmi almeno un amico di Kherson, giornalista e fotografo, bestia nera degli occupanti, fortunosamente fuggito a Odessa, e dunque di poterlo salutare così, a settembre: “L’anno prossimo a Kherson”. Ecco, possiamo fare prima.

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