piccola posta
Non è mai stato tanto chiaro da che parte stare, in Iran e in Ucraina
Non è una novità: l’Italia ha una tradizione di provincialismo o di egoismo che l’ha differenziata dalla solidarietà internazionale di grandi paesi europei con un passato coloniale più importante e meno occultato o dissimulato
Non c’è dubbio che la nostra commozione, di italiane e italiani, di fronte alla ribellione iraniana si riveli misera. In particolare quanto alle manifestazioni collettive di piazza: decine di migliaia a Berlino e qualche decina e basta, quando va molto bene, da noi. E’ una differenza che si può sovrapporre all’altra, ingente, nella solidarietà con l’Ucraina fra l’Italia e gli altri paesi europei. Ma non è una novità: l’Italia ha una tradizione non so se di provincialismo o di egoismo che l’ha differenziata dalla solidarietà internazionale di grandi paesi europei con un passato coloniale più importante e meno occultato o dissimulato, con un passato totalitario più sentito ed espiato, o di paesi nordici freddi ma con un metodico slancio internazionalista. In Italia succede spesso che la meschinità si rivendichi altruista, come in un certo pacifismo assoluto: la guerra post-jugoslava, Sarajevo, Srebrenica, vicinissime com’erano, ne diedero un esempio grandioso. Si deve tuttavia riconoscere, in particolare quanto alla parte cattolica della società italiana, un risarcimento attraverso l’attivismo volontario e caritatevole.
Ma l’atteggiamento di lunga durata dello spirito civile italiano è ora meno interessante dei suoi sviluppi più recenti. E non è casuale che se ne tratti quando è avvenuto un cambio di governo che potrà anche rivelarsi un episodio di trasformismo più pittoresco, a tener conto dell’insipienza dei vecchi nuovarrivati, ma simbolicamente chiude un’epoca. Chissà se lo spirito pubblico italiano contemporaneo sia più malato di impotenza o di indifferenza. All’impotenza lo ha indotto una politica cosiddetta progressista che ha mirato al senso di responsabilità e alla riduzione del danno, non elettorale, che è ragionevole, ma sociale e culturale. All’indifferenza lo ha assuefatto una politica trivialmente chiusa, che ha presentato l’egoismo come l’utile universale e la cattiveria come un compenso all’impoverimento. Lo spirito pubblico italiano è mitridatizzato, immunizzato dall’assuefazione accanita al veleno dell’insofferenza e del rancore, al cui centro sta l’immigrazione. Il suo sintomo chiaro è l’astensione dal voto, che retoricamente si decora come uno scontento per le domande reali eluse dai partiti, lì ad aspettare partiti diversi o rifatti che riscoprano le risposte reali.
Indifferenza e impotenza sono un binomio possente, e hanno messo radici forti. In questi giorni la ribellione di donne, giovani e cittadini iraniani spinge gli osservatori stupefatti e ammirati a impiegare il nome di rivoluzione, al posto del nome di rivolta, che non rende onore alla vastità, tenuta, audacia e creatività del movimento contro il regime della Repubblica islamica. Ma non è un riconoscimento, è una voglia di riscatto: la rivoluzione, parola già del sogno e della sua attuazione “scientifica”, ha perso il suo smalto per due ragioni che sembrano opposte e sono complementari. Perché è destinata a perdere, e perché quando vince fa presto rimpiangere la sconfitta. Finché non si voleva ammetterlo la si chiamava rivoluzione tradita, e si sopravviveva all’ombra della sua nobiltà. Alla lunga fu inevitabile chiedersi se ogni rivoluzione non possa che essere tradita – “alla lunga”, siamo noi. Non solo “noi vecchi”, eredi diseredati dell’Ottobre e della Lunga Marcia e del ’59 cubano e così via, e poi dello stesso folgorante biennio rivoluzionario iraniano del 1978-79, che aprì la strada al richiamo del vecchio ottuso Khomeini dal suo tappeto di preghiera parigino, e alla polizia della morale che più di quarant’anni dopo ancora tortura stupra e massacra la giovane donna che abbia dato aria a una ciocca dei suoi capelli. Ma anche un’intera stagione più prossima, quella che in Europa ha fatto della Bielorussia, arrivata sull’orlo della liberazione, un ridotto di guardiani dell’Impero, e dell’Ucraina, che quell’orlo lo ha superato, il bersaglio di un’aggressione livida e furiosa. E quella che ha mutato il nome poetico (e risorgimentista) delle primavere arabe – Mohamed Bouazizi e la Rivoluzione dei Gelsomini, vi ricordate, dicembre 2010 – in un sinonimo di bancarotte e precipitazioni in fanatismi, mattatoi civili e dittature rincarate.
L’Iran dei mullah e dei pasdaran aveva confiscato l’audacia stupefacente del movimento popolare e il suo nome di Rivoluzione. (Quella di oggi è “una controrivoluzione”, ha scritto l’altro giorno Concita De Gregorio). Dopo, la gente iraniana si è battuta più volte intrepidamente, col risultato di persuadere (senza persuadersi) che la rivoluzione non possa che essere frustrata e falcidiata. L’Iran è un modello di grande paese che ha organizzato la sua missione retriva foraggiando e armando fino ai denti una grossa parte della sua gente, compresa quella che quarant’anni fa non aveva niente da perdere, e oggi ce l’ha o crede di averla. Oggi il senso comune gioca con tracotanza le sue carte: gli ayatollah e i pasdaran sconfitti farebbero dell’Iran una più trista Siria, una peggiore Libia. (E a un Putin sconfitto, che cosa succederebbe nella Russia delle secessioni e delle tribù armate di missili nucleari?). Sono le domande intrise di tossica saggezza che formulano anche molti commentatori. Bisogna aver paura: dell’Ucraina che si difende, dell’Iran che avanza a mani alzate contro la fucileria e che corre dietro ai mullah per fargli volar via il turbante, e che inevitabilmente “esagera”, come con Putin. Bruciare la casa di Khomeini, può essere affare di provocatori, e comunque non bisogna “umiliare” il nemico – che ti sta sparando addosso, a te e ai tuoi bambini. Avevo sentito con raccapriccio una – brava – studiosa d’Iran dire a Radio3 che nelle piazze europee compaiono le bandiere col leone la spada e il sole, e che questo fa pensare a uno “zampino” degli Stati Uniti in favore del ritorno della dinastia dello scià, che è, con l’aggiunta del sionismo, la tesi sacra di ayatollah e Guardiani della rivoluzione: qualche giorno dopo, per fortuna, la studiosa ha interpellato per il Manifesto un’altra studiosa che ha tagliato corto: “La monarchia non rappresenta un modello per gli iraniani di oggi. I Pahlavi... non sono visti né come governanti legittimi, né come attori capaci di avere sostegno popolare”. Anche lunedì in Qatar una giovane sventolava quella bandiera, che è vietata – l’hanno arrestata subito.
All’indifferenza e l’impotenza che hanno scavato così a lungo e così a fondo si aggiunge oggi il ricatto: sono destinati a perdere (“poveri!”) e perdendosi trascinano nel disordine e nella minaccia anche noi. “Ne hanno già condannati a morte 15 mila” – ci hanno creduto perfino i pochi che seguono e si impegnano, le e i radicali prima di tutti, e del resto quelli ne sarebbero capaci. Ha scritto Concita sulle strade unite d’Iran curdo, sciita e sunnita: “O li ammazzano tutti, o cambiano la storia”. La gran parte degli italiani, se l’avesse sentita, avrebbe risposto fra sé e sé, ma senza esitare: “Li ammazzano tutti”. Può essere rassegnazione. Forse nemmeno più. E’ insofferenza: astensionismo.
La rivoluzione, già così trascinante, discinta e gonfia di seni, va in giro povera e nuda, destinata a essere sconfitta o a sconfiggersi – pare. C’è però tanta gente nel mondo che mostra proprio ora di essere pronta a dare la propria vita, che non sarebbe di per sé un’assicurazione, ma di darla per la libertà, che è tutto. In Iran a mani nude e in Ucraina con le armi in pugno. Gerarchi russi e iraniani si scambiano droni e missili. Non è mai stato così chiaro da che parte stare.