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piccola posta

Cosa spinge quei soldati ucraini al rischio di issare la loro bandiera a Kherson

Adriano Sofri

Si sono avventurati sulla sponda sinistra del Dnipro, quella sulla quale si è ritirato l’esercito russo. Uno degli uomini scala l’alta torre di una gru per fissarvi la bandiera. Arditismo? Sì, ma non fine a se stesso

Ho appena visto il servizio da Kherson di Veronica Fernandes per il tg della Rai. Mostrava la bandiera ucraina issata domenica sulla sponda opposta, la sinistra, del Dnipro, quella sulla quale si è ritirato l’esercito russo. E mostrava i militari ucraini dell’unità speciale “Karlson” che si erano avventurati su quel lembo di porto, in mano agli occupanti, che l’hanno però disertato perché è troppo esposto. Mi sono incuriosito. In rete si trova il video intero dell’azione: tre barchini a motore che attraversano il gran fiume, in pieno giorno, sbarcano a un pontile industriale, e vengono accolti da tre cani senza più padroni né amici, che fanno festa agli incursori, e viceversa. Uno degli uomini scala l’alta torre di una gru per fissarvi la bandiera, poi fanno ritorno. La bandiera resta lì, come un promemoria, alla vista degli occupanti e degli occupati deportati da Kherson. Occorrerebbe un commando russo altrettanto temerario per andare ad ammainarla. 

 

Mi sono chiesto che cosa spinga un gruppo di militari, uomini fatti, quando i russi in ritirata stanno da giorni sfogando la loro frustrazione bombardando edifici civili – l’ospedale, il carcere – della città che avevano solennemente proclamato parte perpetua della madre Russia, ad attentarsi in un’impresa rischiosa e meramente simbolica. E’ tipico, certo, delle guerre, e di questa in particolare, spingere a dimostrazioni di ardimento virile, “fiumano”, direbbe qualcuno. Eppure questo arditismo non è fine a se stesso. La guerra d’Ucraina ha abituato a far conto solo di armamenti e della loro reciproca portata, a costo di sottovalutare la questione morale, cioè concretamente la questione del morale dei combattenti. Buriati, ceceni, e anche russi di ceppo, reclutati per forza o per soldo, possono far valere una brutalità ed esibire una ferocia, come dice imprudentemente il Papa, ma è difficile che siano tentati di mettersi al centro di un mirino per inalberare sopra una gru la loro bandiera – e quale poi? 

 

Ho cercato da dove abbia preso il suo nome, “Karlson”, questa unità speciale: non si sa mai, la denazificazione. Viene dal cartone animato di “Karlson on the Roof” (anche in italiano: Karlson sul tetto), tratto dai libri per bambini di Astrid Lindgren, che fu enormemente popolare, più della stessa Pippi Calzelunghe, nell’Unione Sovietica degli anni ‘70. Il Karlson protagonista della favola ha un’elica sulla schiena e può volare, e sta col suo faccione e i suoi capelli rossi sullo stemma dell’ “Unità territoriale di sorveglianza aerea”: il titolo è solenne, in pratica si compone di 23 uomini sulla trentina della regione del Dnipro, dotati di droni del tipo in vendita nei supermercati, senza una precedente esperienza militare. Il loro comandante si chiama Playboy. C’è molto di infantile nella guerra, nel bene e nel male, nel male e nel bene.

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