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Il viaggio di Zelensky visto da Odessa. Un caso unico di uomo di stato

Adriano Sofri

Il presidente va prima a Bakhmut, sul fronte della guerra, e poi parte per Washington. Non sarebbe potuto andare negli Stati Uniti se non fosse passato dalla cittadina del Donetsk, il posto più arrischiato di tutta l’Ucraina

Odessa, dal nostro inviato. Una storia così, una volta la si sarebbe detta “un’americanata”. Non più, o almeno al 50 per cento. Volodymyr Zelensky martedì va a Bakmut, il posto più arrischiato di tutta l’Ucraina. Basterebbe un incidente, e salterebbe il colpo di scena del giorno dopo, la clamorosa visita a Washington preparata in gran segreto. In realtà, non avrebbe potuto andare a Washington senza prima andare a Bakhmut.

Bisogna che nessuno possa dire, e nemmeno pensare, che lui va a prendere l’ovazione del Congresso mentre i suoi stanno nel fango ghiacciato della trincea più esposta. E’ un copione trasparente, la differenza sta nel rispettarlo davvero. Le persone in Ucraina sono fiere di Zelensky, il loro campione: del coraggio e del senso dello spettacolo. E’ raro che un capo di Stato si guadagni così impetuosamente la sua gente. Può succedere con altri professionisti: Messi, per non dire di Maradona, quando entra in gioco la mano di Dio, ma in politica. Abbiamo appena visto Macron arrancare dietro Mbappé, che sembrava chiedersi chi caspita fosse quell’impertinente. Naturalmente, una guerra è il prezzo più alto per compiere questo capolavoro. E c’è da chiedersi se l’investitura che la gran maggioranza degli ucraini ha offerto a Zelensky non sia una delle ragioni dell’antipatia che altrove gli viene tributata, in Italia più sentitamente, com’è noto. Sarebbe un buon segno, insofferenza per gli eroi, fastidio per la vanità, ripudio di magliette militari e altri connotati virili, se non fosse un cattivo segno: l’incapacità di prendere sul serio le cose serie e anzi tragiche. Il caso di Zelensky resta singolare. Si sono sprecati i paragoni col viaggio americano di Churchill: figurarsi. Oltretutto Churchill è venuto prima dei film su Churchill, mentre il film di Zelensky è venuto prima della vita, e l’ha anticipata e insieme fraintesa. Hollywood aveva abituato alle grandi storie, e a commentare le più grandiose con la didascalia: “E’ solo un film!”. Poi venne il sorpasso, l’11 settembre per esempio, e la didascalia spaventata dovette ammettere: “Non è un film!”. Nel curriculum di Zelensky sono entrati film e realtà, la seconda così esorbitante da far quasi dimenticare il film, il “Servitore del popolo”, e certe (poche) sue trovate esilaranti, come il grido: “Putin si è dimesso!” che ammutolisce la baldoria della Rada. Ma guardando quella specie di moltiplicata notte degli Oscar con Zelensky sballottato da abbraccio in abbraccio nel Congresso americano, beato di abbracci democratici e abbracci repubblicani, era inevitabile ricordarsi la serie, e misurare quanta strada abbia fatto quella modesta sceneggiatura. Non è un film. Avveniva mentre il padrone putativo, appena ieri, di mezza America e passa stava andando a giudizio per golpe, mentre si pubblicavano le sue immacolate cartelle delle imposte. Mentre la più ardita contromossa all’accoglienza benigna di Joe Biden a Volodymyr Zelensky era il mortificato Xi Jinping costretto a ricevere a Pechino quel cialtrone di Medvedev. E dal Cremlino si manifestava irritazione per la concessione dei Patriot all’Ucraina, perché al Cremlino piace subissare di missili razzi e droni il suolo ucraino senza che l’Ucraina pretenda di intercettarli. 

Zelensky è il campione della sua gente. Quanto al destino del pianeta, non è né il protagonista né una comparsa. Fa la sua parte, meglio che può. Fra quelli che hanno voce in capitolo, per le ragioni più diverse e se non altro perché sono grandi e grossi, due, Biden e Putin, hanno proclamato nello stesso giorno ciascuno il proprio “whatever it takes”. Putin nel suo modo peculiare, che alla promessa di mobilitare tutte le risorse aggiunge sempre l’arma nucleare, il suo fungo all’occhiello. C’è, negli altri, in molti altri, potenti o inermi, la strana sensazione di potersene tenere alla larga. Di poter non prendere parte. Per un verso si dice, come fa il Papa Francesco forzando soavemente le cose, che la Terza guerra mondiale è già scoppiata, per un altro ci si illude di poter circoscrivere la guerra dove infuria, e specialmente in Ucraina (specialmente perché è il nostro cortile di casa), disinfettandone i confini. La Russia deve ancora decidere se giocare tutto il suo peso sulla sorella Serbia per aprire un nuovo fronte nel sud dei Balcani. La Serbia deve ancora decidere se giocare il tutto per tutto in Kosovo al servizio di una strategia russa dei molti fuochi – “creare due, tre, molti...”. L’Iran andrà avanti a impiccare, ma può esser indotto a esportare il proprio smascheramento in un’avventura esterna. La Russia a corto di munizioni le chiede alla Corea del Nord. Gli Stati Uniti, si è letto ieri, non ce la fanno a fabbricare in un mese le munizioni che l’Ucraina impiega in una settimana... E’ una gran partita di Shanghai, o Mikado, o come la chiamate. Solo che non rispetta le regole, e non è detto che lo sbaglio di uno passi la mano all’altro, ed è ancor meno detto che uno vinca e un altro perda. E’ un azzardo: l’unico criterio è che non vinca quello che ha aggredito. E che non perda quello che è stato aggredito. 

Ho rivisto una signora anziana, qui a Odessa. E’ macilenta, piagata, vestita di stracci, più stracci alla rinfusa ora che fa freddo. Ti si pianta davanti coi capelli aggrovigliati e ti guarda fisso con una specie di disprezzo. Non chiede l’elemosina, tutto in lei mostra che ne ha bisogno. Gliela date, la prende, vi rivolge parole arrabbiate, si volta e va via. Mi pare di capirla meglio che chi mendica riempiendovi di ringraziamenti e benedizioni. La menziono però per relativizzare, come si dice. Perché non ho idea se abbia saputo dei viaggi di Zelensky a Bakhmut e a Washington, e delle intenzioni di Putin sull’Ucraina e su Odessa, anche se esperta com’è di marciapiedi e androni deve aver notato il nuovo buio e il frastuono dei gruppi elettrogeni. Non sarebbe l’ideale un mondo in cui Zelensky fosse il campione degli ucraini solidi, e la signora che se ne è dimessa e altruisticamente maledice non contasse al gioco della guerra e della pace. Dopotutto, anche per lei il punto è di passare l’inverno, e disporsi all’offensiva di primavera.

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