piccola posta
La poesia-provocazione di Brodsky. Di chi è la lingua russa
L'opera del poeta "Sull’indipendenza dell'Ucraina" è diventata materiale della propaganda di Putin, ed è una gran delusione. Ma attenzione alle esagerazioni di chi dice che va riconsiderata l’essenza della cultura russa
Odessa, dal nostro inviato. Domenica un’amica polacca mi ha inoltrato una intervista dell’ottobre scorso al massimo poeta lituano, Tomas Venclova (1937), ripresa in polacco da Gazeta Wyborcza, e, mi auguro presto, dal Foglio per la cura di Micol Flammini. Venclova parla del rapporto con la lingua e la cultura russa, e in generale col passato, tema caldo nel suo paese e scottante in Ucraina. Venclova è stato amico di Iosif Brodsky e di Czeslaw Milosz, che sono stati amici fra loro, oltre che accomunati dal Nobel. Alla loro amicizia Irena Grudzinska Gross ha dedicato un libro fondamentale. Ne scrivo qui per un argomento che prima d’ora non conoscevo se non per un cenno di Cataluccio sul Foglio lo scorso febbraio, e che ha invece fatto scalpore e continua a farlo, nel contesto incandescente dei rapporti fra Ucraina e cultura russa. Nel 1991, o subito dopo, a ridosso dell’indipendenza dell’Ucraina e di altre ex repubbliche sovietiche, Brodsky scrisse (in russo) una poesia intitolata appunto “Sull’indipendenza dell’Ucraina”, che suonava come uno sferzante attacco e, nelle sue stesse parole, una provocazione. Ma la tenne per sé, salva una lettura a Palo Alto nel 1992, di fronte a un vasto uditorio nella Comunità ebraica, ripetuta poi a New York, al Queen’s College, nel 1994. Brodsky non volle mai che venisse pubblicata, e il testo, che circolò di mano in mano, fu ritenuto da molti apocrifo, soprattutto per la virulenza compiaciuta del tono e del lessico – “sputare nel Dnipro”... – finché qualcuno pubblicò il video e la registrazione della sua lettura. Da allora, torrenti di inchiostro si sono versati, sul tema della condivisione di un imperialismo russo culturale e soprattutto linguistico da parte di Brodsky: un paradosso, per un ebreo, messo in galera dal regime sovietico come parassita sociale, esiliato e diventato scrittore e poeta in un’altra lingua, l’inglese... Era stato un incidente, o la rivelazione di un legame orgoglioso, se non certo col potere, con un mondo letterario e linguistico tragicamente minacciato di perdersi con il collasso dell’Urss? Si può immaginare quanto la provocazione ferisse il nazionalismo ucraino, che Brodsky avvertiva irridentemente (la traduzione è azzardatissima): “Riposate in pace, cosacchi, atamani e guardie dei gulag! / Ma ricordate: quando sarà il vostro turno / rantolerete e sussurrerete, graffiando il materasso del letto di morte, / non i rumoracci di Taras, ma i versi poetici di Alexander”.
Taras è Schevchenko, il poeta “padre della lingua ucraina”; Alexander è Pushkin, “padre della lingua russa”. Il primo riflesso del patriottico lettore ucraino è di correre a smantellare la statua di Pushkin (è successo infatti, e minaccia di ripetersi, benché non sia Brodsky a portarne la responsabilità). Keith Gessen, che a differenza di me è uno specialista, si accorse anche lui in ritardo, ma solo fino al 2011, della poesia di Brodsky, e osservò sul New Yorker che “un amico stretto e caro di Brodsky era Tomas Venclova, ritenuto il maggior poeta lituano, e certo Brodsky dovette fremere a vedere la Lituania sollevarsi contro il behemoth sovietico nel 1990 e battersi per l’indipendenza – e conquistarla”. Brodsky – scrisse Gessen – “era un poeta sovietico fortemente antisovietico, e tuttavia un poeta sovietico”. “A scuola si insegnava il russo ad Almaty, a Tashkent, a Samarcanda; a Tallinn, Riga, Vilnius; a Sebastopoli, Lvov e Kiev... C’era più gente che imparava il russo quando Brodsky scriveva le sue poesie di quanti l’avessero mai imparato prima... Questi processi hanno bisogno di tempo, ma fra trent’anni è possibile che siano pochissimi a parlare russo nelle strade di Almaty / Kazakistan /; così fra cinquanta o cento anni a Kiev, dove nacque Mikhail Bulgakov, e a Odessa, la città di Isaac Babel’”. Altri non sono stati altrettanto indulgenti verso la “vera scorrettezza politica” di Brodsky. Mi pare che si possa dire che Brodsky si sia adoperato a dimostrare che la lingua russa e il popolo russo, il suo “carattere nazionale”, sono mutuamente indispensabili, e dunque che il russo non è di chi lo parla, ucraini compresi, ma dei russi. Solo che questa è diventata la distinzione essenziale. Una posta della guerra, e non minore.
Veniamo al Venclova di oggi. “In Lituania molte persone, che sono antisovietiche e antirusse, hanno proprio una mentalità sovietica, una mentalità da Komsomol: cambiano i nomi, abbattono i vecchi simboli e ne mettono subito di propri, tolgono le targhe commemorative e così via. Vale a dire, distruggere e, così facendo, guadagnare prestigio per se stessi, assicurarsi. Questa mentalità non porta a nulla di buono. Non è affatto patriottismo... Il giornalista Andrius Užkalnis ha scritto che non abbiamo bisogno della lingua russa e che non dovrebbe essere insegnata nelle scuole. Mi sembra che forse dovrebbe essere insegnata meno, ma allo stesso modo del francese, del tedesco o del polacco. E’ la lingua di un vicino... Inoltre, la Russia è ora nemica della Lituania. E’ necessario conoscere la lingua del nemico...”. C’è chi dice che “dovremmo riconsiderare l’essenza della cultura russa. Dopotutto, è questo che, secondo alcuni, ha creato la mentalità imperialista russa. Ci sono opinioni esagerate, persino grottesche. Ho letto da qualche parte che Mayakovskij non era un poeta di talento. Purtroppo era un poeta di talento, una figura tragica, distrutta dal regime sovietico. Oppure si dice che Leone Tolstoj scriveva male in russo e aveva scritto metà di ‘Guerra e pace’ in francese... Diciamo che Pushkin era un cantore dell’imperialismo russo. Ci sono esempi di questo nelle sue poesie: è chiaramente contrario alla Rivolta lituana di novembre. ‘Si tratta di una disputa slava, una disputa domestica familiare...’. Per slavi, Pushkin intende i polacchi, perché la Lituania, l’intellighenzia, la nobiltà lituana dell’epoca parlavano polacco. Inoltre, Pushkin, come tutti all’epoca, non faceva molta distinzione tra il mondo baltico e quello slavo. Ora facciamo una distinzione rigorosa tra le due cose. Tuttavia, Pushkin in generale non ha al suo attivo troppe poesie con sfumature imperialiste. Lermontov scrisse una poesia, ‘La disputa’, dall’accento imperialista, ma non furono Pushkin e Lermontov a creare l’imperialismo russo. Pushkin e Tolstoj non vanno confusi con il ministro Uvarov, che creò la parola d’ordine della russificazione ‘Ortodossia, autogoverno, popolo’, alla quale si oppose la maggior parte degli scrittori russi... Basta leggere Guerra e pace o Haji Murat per rendersi conto che in Tolstoj non c’è traccia di imperialismo. Con Dostoevskij la questione è un po’ più complicata. Ma se non si legge Dostoevskij, ci si impoverisce nel campo della psicologia e della filosofia. Come si comporterebbero ora i classici russi è difficile dirlo. Ma intuitivamente sono sicuro che né Dostoevskij né Tolstoj né Pushkin avrebbero appoggiato Putin e l’attacco all’Ucraina. Per me personalmente, la cosa spiacevole riguarda Iosif Brodsky. Lo amavo molto e lo amo, ma scrisse versi antiucraini, poco intelligenti e molto offensivi. Gli ho consigliato di non stamparli e di non leggerli in nessun caso in pubblico. E se li avesse letti, avrebbe dovuto farlo a Kyiv, a tu per tu con gli ucraini, anche a rischio che gli tirassero pomodori e forse sassate... Brodsky non ha pubblicato questi versi, ma una volta li ha recitati in pubblico, in America o in Canada, cioè alle spalle degli ucraini, e questo non è bello. E la poesia è diventata famosa. Ora viene usata dal potere e dai propagandisti di Putin. E’ molto grave. Adam Michnik ha detto: ‘Non so chi vincerà la guerra ucraina, ma so sicuramente chi l’ha persa: Iosif Brodsky. Ha rovinato la sua reputazione per molti decenni, forse secoli’. Più di Pushkin con la sua poesia ‘Ai calunniatori della Russia’”.
Nel 1990 la Lituania fu la prima a ribellarsi e rivendicare l’indipendenza. A quell’epoca era a capo delle forze aeree sovietiche per l’Estonia e il Baltico un giovane, l’unico generale ceceno, che si era illustrato in Afghanistan, Dzochar Dudayev. Invece di reprimere gli indipendentisti baltici, li aiutò, lasciò l’esercito russo, e diventò il leader indipendentista del suo paese, prima d’essere assassinato dai russi, nel 1996. La Lituania accolse poi la sua famiglia. Della Lituania anche sapevo poco, e ora so tutto l’essenziale, grazie al bellissimo libro di viaggio di Francesco M. Cataluccio, “Non c’è nessuna Itaca”, Humboldt Books 2022. (Cataluccio ricorda l’amore di Brodsky per Vilnius e Kaunas, e la frase – ambivalente, peraltro – alla vigilia della partenza per gli Stati Uniti: “I lituani sono il miglior popolo dell’impero!”) A Vilnius c’è una piazza intitolata a Dudayev.
Una volta, a Odessa, il professor Tomas Venclova spiegò che una delle sue poesie preferite di Joseph Brodsky era quella “Al monumento Pushkin a Odessa”. Conclude ora Venclova: “Ascoltate i lituani. Sanno cos’è la Russia”.