piccola posta
Il ricordo oggi di Lisa Foa e il suo pensiero così attuale sul pericolo del nazionalismo
Amica dolcissima e severa, e insieme maestra e interlocutrice, anche postuma, di pensieri sul Novecento rivoluzionario e la sua imprevista protrazione ben dentro il secolo vigente. Oggi un incontro a Roma nel centenario della sua nascita
Odessa, dal nostro inviato. Oggi un incontro ricorda Lisa Giua Foa, nel giorno centenario della sua nascita. A Roma, dopo Torino la città più importante della vita di Lisa (Fondazioni Modigliani e Matteotti, via dell’Arco del Monte 99). Si parlerà del “contesto famigliare”, con Alberto Aghemo e Cesare Panizza, dell’impegno politico, con Barbara Berruti e Fabio Levi, del centro e dell’est europei, con Lucyna Gebert, Wlodek Goldkorn e Andrea Graziosi, e del resto. Verrà presentata una raccolta di scritti di Lisa per la rivista Una Città, curata da Bettina Foa col titolo “Momenti magici” – chissà se Lisa, che era molto ironica e sobriamente romantica, traesse l’espressione dalla canzone di Perry Como: “Magic moments, when two hearts are carin’... memories we’ve been sharing”. Il nuovo libro affianca il racconto della propria vita, “E’ andata così”, che Lisa fece a Brunella Diddi e mia sorella Stella per Sellerio, 2004. Assente all’incontro, dove, a occhio, sarei stato il più vecchio, ho però una conversazione pressoché quotidiana con Lisa, che mi è stata amica dolcissima e severa, e insieme maestra e interlocutrice, anche postuma, di pensieri sul Novecento rivoluzionario e la sua imprevista protrazione ben dentro il secolo vigente.
Per essere molto sommario: la mia parte di generazione, quella che si volle fieramente “rivoluzionaria”, in un modo ancora mezzo all’antica e mezzo nuovo, non ebbe illusioni quanto all’Unione sovietica, e al contrario la giudicò così inscalfibilmente tirannica da schiacciare le ribellioni ricorrenti, popolari, operaie, studentesche, contro i regimi “satelliti” – in Polonia, in Germania, in Ungheria, in Cecoslovacchia... – e destinarle inesorabilmente a eroiche sconfitte, come quella di Spartaco. La rivoluzione cui ci dedicavamo, eredi più o meno disordinati di filoni eterodossi e a loro volta schiacciati dalla tradizione marxista, era affare dell’occidente capitalistico e democratico. Il “socialismo reale”, irriformabile come si era dimostrato, avrebbe avuto bisogno di una vera rivoluzione, che immaginavamo solo importata dalla nostra parte di mondo. Al suo collasso non avevamo pensato abbastanza, né alle spintarelle capricciose che lo precipitarono: un Papa, degli operai siderurgici e la loro Madonna, un disastro afghano, degli euromissili americani – e intere popolazioni che non ne potevano più della penuria di cetriolini ungheresi e di libertà. La “Rivoluzione contro il Capitale” era stata il più costoso dei malintesi. Fummo pronti a solidarizzare, anzi con entusiasmo, con la Polonia di Solidarnosc e con la caduta del Muro, ma anche sbrigativi nel chiudere la resa dei conti. Lo fu ancora di più, e per questo fece per un po’ scandalo, Renzo Foa (1946-2009), figlio di Lisa e Vittorio e fratello di Anna e Bettina, che quel passato se lo buttò alle spalle irridentemente. Noi ne eravamo partiti, perciò eravamo impazienti di venirne via e davamo per scontata una risalita dagli inferi. Eravamo nella posizione seccante di chi, essendo stato giovane quasi per definizione, rimaneva a mezza strada. I giovani di turno si buttavano alle spalle tutto quel retaggio sovietico (e cinese, e terzomondista) i meno giovani, e Lisa esemplarmente, capivano quanto dovesse essere ancora profonda e quanto fruttuosa la resa dei conti. E’ stata l’Ucraina a rimettere in ballo tutto questo. A Roma oggi c’è Andrea Graziosi, uno degli studiosi che meglio impiegano un proprio debito umano e scientifico con Lisa. Da quando la Russia ha invaso l’Ucraina, facendo quello che non credevamo possibile (non si crede mai che la Russia farà quello che proclama di voler fare, se non si è la Cia: nemmeno Alexander Dubcek ci volle credere nel ’68), io mi interrogo sugli anni passati di Andrea Graziosi e di altri come lui. Di quelli cioè che per una vita hanno studiato tragedie colossali come l’Holodomor, che noi ritenevamo di aver appreso e catalogato – era la grande carestia maneggiata dal potere staliniano che costò milioni di morti all’Ucraina, e che colpì anche altre parti dell’impero staliniano, dal Caucaso al Kazakistan, fine del paragrafo col quale conoscemmo e archiviammo l’affare. Quelli come Graziosi devono essersi sentiti, per decenni, custodi di una notizia che restava ignorata ai più, e ridotta a quel breve paragrafo supplementare in qualche aggiornato manuale di Storia.
Forse è soprattutto questo a suggerire un confronto con la conoscenza della Shoah, prima dei testimoni non creduti o inascoltati, poi degli studiosi, infine delle autorità del mondo. La stessa Ucraina ufficiale del resto ci è arrivata molto tardi e molto faticosamente, ciò che spiega anche la virulenza con cui ha maneggiato la rivelazione. Lisa aveva capito questo, con l’intelligenza che viene non dalla sola conoscenza, ma dalla riflessione sulla propria esperienza vissuta: perciò non passa giorno che dal mio imprevisto soggiorno ucraino non la desideri come la migliore interlocutrice. Diceva Lisa nel 1993, quando la catastrofe jugoslava era ancora agli inizi: “I rischi sono tanti, il più pericoloso è ovviamente il nazionalismo esasperato... Nel cambio di regime c’è anche bisogno di ristabilire la giustizia, che le colpe non restino impunite. E’ il problema della decomunistizzazione. In Cecoslovacchia c’è stata la famosa legge della ‘lustrazione’ e le menti più illuminate non sono riuscite a bloccare una forte tendenza a epurare, al limite della vendetta. Da un giusto desiderio di ristabilire la giustizia, il passaggio a una posizione di rivalsa, di vendetta non è così netto”.
Ricordava Lisa che “i dissidenti polacchi e cecoslovacchi che cominciavano ad arrivare in Italia guardavano attoniti i cortei che sventolavano le bandiere rosse. Qualcuno di loro mi confessò più tardi che ci consideravano tutti matti”. Ci sono anche aneddoti, nel suo racconto, di una imprevedibile e piccante attualità, come questo del ’52: “Si trattava di mettere in piedi una serata su Gogol’, a cento anni dalla morte. Chiesi a Luchino Visconti, che guidava la compagnia teatrale con Paolo Stoppa, Rina Morelli e Massimo Girotti. Visconti non era iscritto al Pci perché era omosessuale e non lo avevano ammesso. Era comunque di sinistra e l’iniziativa gli piacque subito: la cultura era l’occasione per superare tensioni politiche. Era un vero signore, alla mano e potrei dire persino galante. E poi avevamo avuto una esperienza in comune, anche lui aveva avuto a che fare con la banda Koch a Milano. Ne nacque uno spettacolo a inviti al teatro Eliseo. La scenografia consisteva in un grande ritratto di Gogol’, con una enorme corbeille di fiori. Dovettero chiudere le porte che a un certo punto cedettero sotto la calca”.
Dialogando nel 1997 con Lisa e con Mauro Martini, Adam Michnik spiegava: “Io nel dibattito polacco sono molto filorusso perché penso sia una sfida storica per noi essere dentro la Nato, mantenendo un orientamento filorusso, e ciò allo scopo di minimizzare le tensioni tra la Russia e l’occidente. Forse è un mio errore politico, ma non morale, perché non condivido la tesi per cui i russi non facciano parte dell’Europa e siano degli asiatici. Storicamente, non vi sarebbe una cultura europea senza Prokofiev, Cajkovskij, Shostakovic, Stravinskij, Dostoevskij, Mandel’stam, Achmatova, Solgenitsin, Sacharov, eccetera. Personalmente conosco molti russi, parlo russo, vado a Mosca e a Pietroburgo spesso, per cui penso che i russi cerchino la loro strada oggi e bisogna sostenere ogni russo pro democrazia. In questo senso sono filorusso, ma antisovietico certamente, cioè non accetto affatto l’imperialismo russo”. Oggi l’Ucraina ha di fronte un problema principale, di vita o di morte, letteralmente, che è la resistenza all’aggressione russa. Non è il solo. Ha, e noi con lei, il problema di un patriottismo che non ceda al nazionalismo, di una democrazia delle braccia allargate, dello stato di diritto e dei diritti civili, e di un europeismo che non rinunci al patrimonio comune della lingua e della cultura russe. E’ difficile, fuori dall’Ucraina, misurarsi col secondo insieme di problemi senza prendere posizione sul primo. Scrivono oggi Anna e Bettina Foa: “Spesso ci viene da chiederci cosa avrebbe pensato Lisa dell’aggressione russa all’Ucraina. Non possiamo parlare per lei, ma possiamo facilmente immaginarla molto impegnata a contribuire all’analisi di questi avvenimenti e mobilitata su vari fronti nell’appoggio alla lotta degli ucraini per la difesa della loro libertà”. La immagino così anch’io, e quando mi interrogo su una divisione accanita che passa attraverso l’eredità disordinata della sinistra, quella che si è considerata tale, mi viene voglia di riusare una citazione di Lisa: “C’è un personaggio di Manuel Vázquez Montalbán in Assassinio al Comitato Centrale che dice: ‘Gli dèi sono morti, ma noi sacerdoti siamo rimasti’”. Con tutto il rispetto, penso che si tratti di questo, della renitenza a spretarsi, anche quando non si crede più. Però quella divisione attraversa oggi anche nostre consonanze antiche e amicizie indissolubili, e ha bisogno di un’altra spiegazione, che chiamerà in causa lo stato di un mondo tirato indietro verso la guerra, la distruzione e la dissipazione, la conservazione del retaggio peggiore del genere umano, quando sarebbe gran tempo per andargli al soccorso, del genere umano e del suo mondo. Magari anche di questo si parlerà oggi a Roma, in ricordo di Lisa.