Foto di Daniel Cole, AP Photo, via LaPresse 

Piccola Posta

L'Ucraina, i suoi eroi, i suoi renitenti: per i giovani al fronte servono armi adatte

Adriano Sofri

In conseguenza alle offensive di Mosca, il numero di chi non vuole combattere cresce. Dall'inizio della guerra molti ucraini si organizzavano per evitare la leva. E i “reclutatori stradali” nei mercati e nelle stazioni fanno paura a molti cittadini

Odessa, dal nostro inviato. C’è una guerra feroce che sta per toccare il suo anno. C’è una nuova offensiva russa annunciata da un giorno all’altro. C’è una popolazione al buio e al gelo. Quasi una persona su cinque di quella popolazione è riparata all’estero, bambini, donne, vecchi – anche uomini. È in vigore la legge marziale. Come si può discutere criticamente di quello che avviene in Ucraina senza rischiare di fare il gioco degli aggressori? Si può. Ognuno di noi che prova a seguire da vicino gli avvenimenti, che solidarizza con gli aggrediti, che si augura la punizione degli aggressori, si pone ogni giorno questa domanda. Ma si può.

 

Il governo ucraino che prende o fa prendere dai suoi servizi di sicurezza misure drastiche e pubbliche – stavo per dire esemplari – a carico della corruzione e dell’avidità di suoi esponenti fra i più in vista, anche fra i più legati al presidente, ha a sua volta deciso che si può. Zelensky promette riforme che assicurino trasparenza all’azione pubblica. Trasparenza e stato di guerra sembrano incompatibili o almeno contraddittori, ma forse è vero anche il contrario. Che la guerra, i sacrifici e l’abnegazione che impone, esigano a compensarli una ribellione ai privilegi. In Ucraina si stanno giocando molte partite allo stesso tempo. Una è la principale, e sarebbe ridicolo non riconoscerlo. La resistenza all’occupazione russa è affare di vita o di morte.

 

È la difesa di colui cui sia stato puntato un coltello alla gola. È la principale: questo non vuol dire che sia quella cui il resto va sacrificato, in attesa di tempi migliori. Non può esserle sacrificata la partita della corruzione, che oltretutto pregiudica la stessa determinazione dei combattenti e delle retrovie. Né la partita politica e culturale del nazionalismo, pronto a usurpare il patriottismo. Oggi questi fili si avvolgono insieme attorno alla questione del reclutamento. Il Cremlino si guarda dal decretare la coscrizione obbligatoria universale, temendone i contraccolpi, ma mette in campo un numero colossale di armati, selezionando alla rovescia, fra i popoli delle repubbliche periferiche, fra i detenuti comuni, fra la popolazione meno urbanizzata.

 

Conta sul numero dopo aver visto decimata la propria forza professionale, e non bada a spese quanto alla dilapidazione di vite umane. Oggi autorità ucraine rivendicano di aver portato il rapporto fra le perdite russe e le proprie a sette contro una: è probabile che sia un’esagerazione. Le perdite in campo ucraino sono state ingenti, hanno forse pareggiato quelle nemiche nei primi mesi, incidono più pesantemente su una popolazione così numericamente inferiore a quella della Federazione russa. In tutta la prima fase l’esercito ucraino ha contato pressoché per intero sulle proprie forze professionali e sull’afflusso entusiasta dei volontari. Questo non basta più. Ma anche in quel primo periodo, com’era inevitabile, si sono mostrati atteggiamenti differenziati.

 

Numerosi espatriati erano uomini, maschi cioè, tra i 18 e i 60 anni, il genere e la fascia di età cui il governo aveva proibito di uscire dai confini. Fin da allora una proporzione di renitenti alla leva era registrata e raccontata. Scriveva il New York Times lo scorso aprile: “Migliaia di ucraini in età militare hanno lasciato il paese per evitare di partecipare alla guerra… Le organizzazioni di contrabbando in Moldavia, e forse anche in altri paesi, hanno fatto affari d’oro. Alcuni hanno pagato fino a 15.000 dollari per un viaggio clandestino notturno fuori dall’Ucraina… I governanti ucraini hanno minacciato di incarcerare i renitenti alla leva e confiscarne le case. Ma nella società i sentimenti sono più divisi”. Alla fine di luglio il quotidiano riferiva del reclutamento dei giovani per strada, nei termini di una “caccia del gatto col topo”.

 

Erano state raccolte più di 25 mila firme, la soglia che impone al presidente Zelensky di pronunciarsi, per chiedere di vietare le convocazioni agli uffici di reclutamento “ai posti di blocco, alle stazioni di servizio e in altri luoghi pubblici”. Si protestava contro il reclutamento in strada di uomini senza esperienza militare né volontà di arruolarsi, a scapito dell’arruolamento di persone motivate e dotate di una formazione al combattimento. L’esonero dalla coscrizione era previsto per gli iscritti all’università, i disabili e chi ne ha la cura, i padri di almeno tre figli. C’era l’obbligo di registrarsi all’ufficio di reclutamento e di sottoporsi a una visita medica che certificasse l’idoneità al servizio. Ciò avveniva di fatto in modo alterno e disordinato.

 

Da molti si obiettava che il reclutamento avvenuto fermando in strada le persone fosse illegittimo. “Conosco ragazzi che non escono nemmeno dal loro appartamento perché hanno paura di ricevere una convocazione”, diceva un giovane intervistato a Kharkiv. Nella stessa città, continuava il giornale, “un canale di messaggistica Telegram fornisce informazioni anonime in tempo reale sulla posizione dei reclutatori per le persone che cercano di evitarli. Ha più di 67.000 iscritti”. Il canale elencava “i cinque luoghi in cui vengono consegnate più convocazioni e le malattie che impediscono agli uomini di prestare servizio”. Spiegava anche come rifiutare una citazione.

 

Non è difficile immaginare che, a distanza di tanti mesi e di tanti morti, e con una guerra che si è fatta endemica, la renitenza alla leva sia cresciuta. Non era rilevante allora e non lo è oggi la quota di renitenza dovuta a posizioni filorusse. Questo può sembrare un paradosso: coerenza vorrebbe che concordare con la resistenza del proprio paese e augurarsene la vittoria si traducesse nella motivazione a prendere la propria parte nella mobilitazione. Ma non è così che va la vita. Tanto meno quando la coerenza non si applichi a se stessi ma ai propri figli, o comunque ai propri cari.

 

Succede di trascurare questo aspetto della situazione reale. In un sito italiano di pregevole competenza militare e orientamento civile leggo: “L’Ucraina ha 40 milioni di abitanti. Può tranquillamente permettersi di mobilitarne il 2 per cento con risorse proprie, e fino al 3-4 per cento con risorse esterne. Parliamo di oltre un milione di uomini se necessario. Al momento non sussistono problemi e non ci sono notizie di resistenze, renitenze o proteste contro la guerra”. Non ci sono notizie – o quasi: ma solo perché evitiamo di darle, per la malintesa preoccupazione di nuocere a chi difende la propria casa mentre gliela stanno bombardando.

 

C’è un’altra ragione: gli inviati di guerra, specialmente i televisivi – che stanno offrendo in generale una prova lodevole – frequentano soprattutto le prime linee e i luoghi civili colpiti, e indugiano meno sulla vita quotidiana e sugli atteggiamenti delle persone. Chi si prenda il tempo lento dell’assiduità casuale in una vita cittadina assiste spesso alla scena di militari che fermano uomini in età di reclutamento, ne controllano i documenti e li convocano alla registrazione. Non di rado la scena si muta in quella di una fuga. I “reclutatori stradali”, nei luoghi supposti più affollati, mercati, stazioni, centri di ritrovo, sono in divisa militare: si suppone che per prendere di sorpresa i renitenti converrebbe loro vestire panni borghesi. Non so se intervenga qui il rispetto di una ragione legale o regolamentare.

 

Sta di fatto che i canali come quello segnalato già mesi fa nel reportage del Nyt si sono moltiplicati: ci sono reti capillari di segnalazioni più che di quartiere di caseggiato, che segnalano la presenza delle pattuglie e si concludono con l’avvertenza: “State a casa”. La facilità di accesso a questi canali e in genere ai social, Facebook compreso (che offre una traduzione ancora rudimentale ma bastante), mi permette di accertare che questo andamento non riguarda una città in particolare, ma è diffuso, sia pure con differenze sensibili in centri più a ridosso del fuoco o riscattati all’occupazione. Succede anche che qualcuno, sui social, si spinga alla delazione “patriottica”, denunciando la scomparsa improvvisa di famiglie del vicinato che fino al giorno prima conducevano una vita normale, andavano al lavoro, mandavano i figli a scuola, e preparavano in silenzio la fuga: memorie allarmanti, la fuga e la delazione, di altri tempi e altri regimi.

 

All’inizio di dicembre il Parlamento ha votato una legge che aggravava le pene per i reati, già previsti nel codice, compiuti da militari: “Insubordinazione; mancata obbedienza a un ordine; minaccia o violenza contro un superiore; abbandono non autorizzato del luogo di servizio; diserzione, abbandono non autorizzato del campo di battaglia o rifiuto di usare le armi”. Anche allora ci sono state proteste, e la petizione da inoltrare al presidente Zelensky perché esercitasse il suo veto ha superato largamente in un solo giorno le 25 mila firme richieste. Si sosteneva in particolare che la legge cancellasse di fatto le attenuanti, facesse pagare ai soldati errori dei comandanti, impedisse che le mancanze venissero riscattate nella prosecuzione del servizio abolendo sanzioni alternative al carcere, fra i 3 e i 12 anni.

 

Il comandante in capo dell’esercito ucraino, il generale Valerii Zaluzhnyi, caldeggiò l’approvazione della legge. “C’è una minaccia di impunità per i comandanti? No, anche i comandanti sono pienamente responsabili delle loro azioni o inazioni. E ho una fiducia piena nei miei subordinati. Riconosco l’esistenza di problemi che portano all’abbandono arbitrario delle posizioni? Sì, e bisogna lavorare per eliminarli. E il successo delle operazioni compiute per liberare i nostri territori ne è una conferma. È normale che discutiamo in pubblico di argomenti così delicati? Sì, siamo in uno stato democratico. Ma finché non ci fa male per vincere la guerra. Pertanto, esorto tutti a porre fine a questa discussione”. Posizione cui Zelensky ha aderito, passando la legge alla definitiva ratifica della Verkhovna Rada. 

 

La mobilitazione riguarda anche coloro che non abbiano compiuto il servizio militare, previo l’addestramento obbligatorio di almeno un mese. L’obbligo della registrazione, che parte dal compimento dei 17 anni mentre l’arruolamento parte dai 18, può essere comunicato “in luoghi pubblici, alberghi e ristoranti, sul posto di lavoro, ai posti di blocco, a casa o semplicemente per strada”. La sequela è: registrazione, visita medica, invio all’esercito. Su Repubblica, il 29 gennaio Paolo Brera aveva scritto: “Nel bagno di sangue a Soledar l’esercito ucraino ha faticato a tenere salde le truppe tra ufficiali scomparsi nel nulla abbandonando i loro uomini, diserzioni e arretramenti non concordati. Il presidente Zelensky ha varato un decreto inasprendo le pene…”.

 

L’altroieri lo stesso Brera intervistava il segretario del Consiglio di sicurezza e difesa ucraino, Oleksiy Danilov. Brera: “Il reclutamento fa molto discutere gli ucraini. Non tutti sono pronti a imbracciare il fucile”. Danilov: “La Russia ha fatto una grande campagna informativa per diffondere fake sulla nostra mobilitazione. Vogliono descrivere la nostra situazione come terribile. Hanno coinvolto una grande quantità di rappresentati dei mass media occidentali. Hanno collaboratori che scrivono nei paesi europei. Uno di quelli in cui sono più presenti è la Spagna, noi conosciamo bene tutta questa gente, sappiamo di cosa si occupano questi collaboratori della direzione numero 1 del Fsb, i servizi russi. La mobilitazione c’è da febbraio 2022 e procede secondo programma. Vicino a noi c’è un centro di reclutamento e ci sono code ogni mattina”.

 

Brera: “Volontari?” Danilov: “Ogni uomo deve essere classificato e sostenere la visita medica. Dobbiamo sapere su chi contare, ma non vuol dire che debba partire per il fronte. Mio figlio più piccolo è stato obbligato a presentarsi, è stato chiamato il 3 marzo e sta facendo il suo dovere nell’esercito. Ai suoi amici è stato detto: non abbiamo bisogno di voi per ora, vi chiameremo”. 

 

È inevitabile dunque sospettare che la rete di sostegno alla renitenza alla leva costituisca un piatto ricco per gli agenti russi o filorussi. Ma limitarsi a spiegarla così sarebbe un errore, offrirebbe una magra consolazione ai responsabili ucraini, e fuorvierebbe i loro alleati. Oltretutto, alcune delle posizioni citate sono prese da persone che espongono nome e faccia. Riconoscerlo non vuol dire esporre una debolezza: al contrario. La prova di coraggio e orgoglio dell’Ucraina è un fatto compiuto. E non esiste un popolo fatto fino all’ultimo uomo per la trincea. 

 

Torniamo al punto della corruzione. Quando ministri e viceministri e capi di agenzie pubbliche e politici miliardari vengono presi con le mani nel sacco, come potrebbe mancare una scala delle compravendite, fino ai tariffari che la voce pubblica indica per i differenti servizi: l’espatrio, l’esonero dal servizio militare, il rinvio…? Due commercianti di Privoz, il gran mercato di Odessa, i più distanti fra loro, fiori e scarpe, mi hanno detto cifre piuttosto coincidenti. La punizione della corruzione in alto è un avviso anche ai gradini inferiori, e un riconoscimento dovuto a chi si trova in trincea, e spesso aspetta da tempo che gli si dia il cambio. Ma bisogna essere davvero ingenui per immaginare che una volta cancellata la corruzione cadrebbero le obiezioni al servizio militare al fronte. Piuttosto, una valutazione sensata influirebbe sulla vessata questione degli armamenti di cui dotare i difensori, oltre che sulle riflessioni sull’esito della guerra. La Russia ha costretto questa guerra, dopo il fallimento iniziale, dentro il doppio infame stampo della minaccia atomica e dello sperpero di carne da cannone. Non si può chiedere agli ucraini di restare stretti in questa morsa.

 

L’Ucraina si trova ad affrontare questioni estremamente drammatiche e spesso tragiche. Il New Yorker del 30 gennaio aveva un lungo e forte reportage da Izyum, la città dell’Oblast’ di Kharkiv riconquistata dagli ucraini a settembre. Joshua Yaffa ricostruiva, persona per persona, punto di vista per punto di vista – spesso completamente e mortalmente opposti – la “Caccia ai collaboratori dei russi in Ucraina”. Anche questo è un tema spinoso, anche su questo si può dubitare di “fare il gioco del nemico”. L’Ucraina sperimenta oggi, specialmente in alcune zone dell’est, le lacerazioni che furono dell’Italia dopo l’8 settembre, la divisione fra la parte giusta e la parte sbagliata, l’occasione e la tentazione dei comportamenti sbagliati dalla parte giusta. Oltretutto, nel territorio ucraino incombe il rischio che conquista e riconquista si alternino più volte fra i due fronti nemici, e che giustizia e vendetta si alternino altrettante volte, incubo spaventoso. Mi è sembrato bellissimo il reportage di Yaffa, e ancora più confortante che abbia avuto la piena libertà di svolgerlo. 

 

Poi, ho detto, c’è la “battaglia culturale”. Quella che riguarda la lingua – il russo parlato da una così larga parte di ucraini – e il patrimonio letterario, musicale, artistico. Voci ucraine e forestiere hanno invocato l’analogia con revisioni culturali che scuotono il mondo, e specialmente la loro ispirazione anticoloniale. Vanno studiate con gran rispetto e attenzione, oltretutto perché c’è moltissimo da imparare su se stessi. Purché non si ecceda nel compiacersi del proprio torto. Oggi un nome cruciale della contesa è quello di Alexander Puškin.

 

Ne è un esempio largamente discutibile un altro saggio del New Yorker, di Elif Batuman, “Rileggere i classici russi all’ombra della guerra d’Ucraina. Come fare i conti con l’ideologia di ‘Anna Karenina’, ‘Eugenio Onegin’ e altri libri amati”. Lo rinvio ad altre occasioni, se ci saranno. Ma finisco avvertendo che nella grande via Puškin, la statua di Puškin dei cui pericoli avevo detto qui nel giugno scorso – quando le lasciavo i miei fiori – è ora interamente imballata in un parallelepipedo retto a base quadrata, di legno, come in una provvisoria bara verticale, sulla quale qualcuno ha avuto cura di dipingere la bandiera rossa e nera del banderista Esercito insurrezionale ucraino (Upa).

 

Il catafalco non vuole sottrarre Puškin alla pubblica vista ma proteggerlo dal privato e ripetuto vandalismo. Lì dietro c’è il museo dedicato a Puškin, e questa volta l’ho trovato aperto e bellissimo. La cosa che mi ha colpito di più è il facsimile del foglio manoscritto della poesia “Al mare”, l’addio al mare e a Odessa. “Come il malinconico mormorio di un amico, / Come il suo richiamo nell’ora dell’addio, / Il tuo triste rumore, il tuo rumore che invoca / Io l’ho sentito per l’ultima volta”. I fortunati che leggono nell’originale sottolineano la levità dei versi di Puškin, come una corrente sorgiva. Bene: il foglio è così coperto di correzioni accanite da far cercare con la lente d’ingrandimento le parole risparmiate per la versione finale. Ho pensato che si potrebbe ricominciare da lì, con la questione. 

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