Piccola Posta
Putin parla come Santoro
Il presidente russo dice di aver dovuto “fermare la guerra” dell’occidente in Ucraina. L’obbedienza dei suoi
Odessa, dal nostro inviato. Ho ascoltato, meglio che ho potuto, le due ore di discorso di Putin alla sua assemblea federale e al consesso dei suoi notabili. Le reazioni russe della vigilia alla visita di Biden a Kyiv promettevano fuoco e fiamme: “Ora Putin laverà questa onta”. Putin non ha affatto replicato alla visita di Biden, e ha voluto assicurarsi una prudenza, perché di lì a poco, a Varsavia, la parola sarebbe di nuovo passata a Biden. Putin, in questa girandola oratoria, avrà ancora un gran discorso da stadio, e poi finalmente l’anniversario sarà passato, e il santo gabbato. Ho ascoltato il redivivo Pietro il Grande e l’ho trovato noioso. Anche con le parole Putin si comporta come con le vite dei suoi soldati, facendo leva sulla quantità. Non so estrarre dalle sue due ore una sola frase memorabile. Ha preso le mosse dalla dichiarazione più infantile del mondo: “Hanno cominciato loro!”. Si è attenuto strettamente alle versioni di Messina Denaro, Santoro, Travaglio: “Il popolo dell’Ucraina è divenuto l’ostaggio del regime di Kyiv e dei suoi padroni, che hanno di fatto occupato il paese in ogni senso, politico, militare ed economico”. (Di suo, ha aggiunto nobilmente di aver aiutato l’Italia malata di Covid). Lui, a questo caro popolo ucraino preso in ostaggio, va levando con metodo luce, acqua, riscaldamento, vita e membra: per il suo bene. Putin ha dimenticato di rettificare il luogo comune vigente, alla luce dell’espressione impiegata alla vigilia da Biden: di sostenere l’Ucraina “for as long as it takes”.
Il luogo comune, esacerbato dalla vergogna di Kabul (e del Rojava) è che l’America sia pronta ad abbandonare coloro cui ha giurato protezione e che si sono battuti per lei. Ora Biden insiste, invece, senza nemmeno un giubbotto antiproiettile: il vantaggio di avere 80 anni. Lui, Putin, dice, ha dovuto scatenare l’operazione speciale per “fermare la guerra”. Ha ricevuto 60 applausi a scena aperta, alcuni dei quali con l’uditorio in piedi. L’uditorio ufficiale di Putin ha facce ed espressioni degne di Daumier. Ci sono eccezioni, visi giovani di donne e uomini, visi attraversati da pensieri, ma la gran maggioranza risponde pedissequamente al cast di caratteristi del privilegio burocratico e dell’obbedienza. Ha detto sprezzantemente, Putin, che il popolo russo non spende certo le sue lacrime per i ricchi russi che si sono visti confiscare yacht e proprietà nel torbido occidente. Lacrime copiose e invisibili hanno rigato le guance paffute di buona parte dell’uditorio, che faceva sì con la testa quasi spiccata dal collo. Di notevole, Putin ha detto, ma di passaggio, così di passaggio che ho dovuto controllare di non aver frainteso, che non colpirà per primo con l’arma atomica. Con più enfasi ha avvertito di voler uscire dal residuo accordo New Start sul controllo reciproco dell’armamento nucleare fra Russia e Stati Uniti, rinnovato per cinque anni nel 2021. L’avanzo di Trattato sulle armi strategiche offensive prevedeva finora la limitazione delle testate nucleari di ciascun contraente a 1.550 (la Russia ne ha 6 mila) e dei missili balistici intercontinentali a 700. Applausi scroscianti. Putin ha alluso anche all’intenzione dell’Ucraina di dotarsi di armi nucleari, battendo ogni record di impudenza – l’Ucraina si liberò del suo gigantesco arsenale nucleare nel 1994, in cambio della garanzia internazionale, e russa, di sicurezza del proprio territorio. Ha menzionato, senza indugiarvi, l’eccellente stato di manutenzione del suo arsenale nucleare – un’efficienza del 91 per cento, migliorabile ancora, e tale da costituire un modello per il resto dell’armamento.
Ha ricevuto una vera emozionata ovazione quando ha citato Pëtr Arkad’evič Stolypin, il primo ministro dello zar Nicola II, che i nostri scolari conoscono pressoché soltanto per la famigerata espressione della “cravatta di Stolypin”, che designava il cappio di forca cui quel governante era incline a ricorrere nei confronti di rivoluzionari e oppositori. In realtà Stolypin è passato alla storia anche per aver tentato di raddrizzare le sorti pericolanti dello zarismo dopo il biennio 1905-6, la prima rivoluzione e la sconfitta nella guerra russo-giapponese, attraverso una vasta riforma agraria che promuovesse un ceto di contadini proprietari. L’ovazione dell’uditorio tuttavia non aveva l’aria di commemorare lo Stolypin riformatore, e nemmeno la sua uccisione – a Kyiv, nel 1911, per mano di Dmitrij Grobov, un socialrivoluzionario ebreo. Bensì, semplicemente, l’evocazione di un personaggio del repertorio zarista. A differenza degli spettatori stranieri, il pubblico di Mosca sa che la citazione di Stolypin è un tic ricorrente di Vladimir Putin, e ha voluto contentarlo. C’è un’altra frase celebre di Stolypin, Ugo Tramballi l’aveva appena ricordata in un bell’articolo sul Sole a proposito dell’attualità della guerra di Crimea, e sembra ritagliata apposta per l’anniversario dell’operazione speciale: “In un anno, tutto cambia nel paese; in un secolo, niente cambia”. La citazione di Putin era però un’altra: “Quando si tratta di difendere la Russia, noi dobbiamo tutti unire e coordinare i nostri sforzi, diritti, responsabilità, per affermare il solo, supremo diritto storico della Russia: il diritto di essere forte”. Quel diritto Stolypin lo invocò anche per cancellare ogni distinzione fra Russia Bielorussia e Ucraina, musica per le orecchie di Putin, come quella di Stalin o di Brezhnev.
Una lunga parte della concione di Putin è stata dedicata nel tono più prosaico e insincero, un tono da sindacalista intermedio delle forze armate, alla promessa di premure e sovvenzioni speciali ai veterani e alle famiglie dei caduti, e di premi ai giovani che accorrono alle accademie militari. Ha annunciato una Fondazione per il sostegno alle famiglie dei caduti nell’Operazione. Ogni famiglia avrà una sua particolare assistenza nel misurarsi col proprio lutto, gli affitti delle abitazioni dovranno essere ridotti in proporzione al sacrificio militare sostenuto... Putin ha rivendicato energicamente la “resilienza”, dice anche lui così, dell’economia russa all’assedio di sanzioni senza precedenti, il risultato enormemente migliore di quanto l’occidente e le istituzioni economiche internazionali avessero preconizzato, la promessa di futuro dei moltiplicati rapporti energetici (e nella coltura e nell’esportazione di grano) con la Cina e l’India e il resto del mondo terzo. Ha naturalmente ripetuto il ritornello del neonazismo e della volontà maniacale dell’occidente di cancellare la Russia e la sua anima. Ha ricordato che l’occidente è il regno della sperimentazione diabolica – sintesi mia – culminata, oltre che nella distruzione della famiglia composta di un uomo e una donna nella “pedofilia”, termine suo, e dunque nel fine ultimo della altruista operazione speciale russa che è di sottrarre “i bambini” al loro destino di degradazione e violazione. Il rapporto di Save the Children appena pubblicato riferisce che ogni giorno in Ucraina sono uccisi o feriti 4 bambini. Che tra i 4 e i 5 milioni di bambini hanno un drammatico bisogno di aiuto umanitario. Che la chiusura delle scuole ha lasciato senza alcuna risorsa un terzo dei bambini ucraini, privi di un qualunque strumento digitale. Lo scorso 17 febbraio il commissario per i diritti umani della Verkhovna Rada, Dmytro Lubinets, aveva comunicato che il numero di bambini deportati dall’Ucraina in territorio russo “può ammontare a 150.000”.
Ieri mentre Putin parlava – in piedi dietro il suo leggio, dunque in buona forma fisica, a quanto pare – arrivava finalmente a Kyiv la presidente del consiglio italiano Giorgia Meloni, reduce da una brutta influenza. Kyiv registra un gran viavai. L’altroieri era arrivata, preceduta dalla visita del ministro degli Esteri israeliano, una commissione della Knesset: ero curioso di sapere se si fossero ricordati di Menachem Khodorovsky-Savidor (1917-1988), presidente della Knesset dal 1981 al 1984, l’uomo al quale è intitolata la stazione ferroviaria di Tel Aviv. Savidor, che aveva raggiunto Eretz Israel nel 1941, era nato a Bakhmut.