piccola posta
Un anno di guerra, sì, ma al diavolo gli anniversari
Obiettivo: far passare inosservato questo giorno qualunque. Meglio una visita al cimitero storico dei cosacchi nella vecchia periferia di Odessa, città che non finisce mai e per questo difficile da conquistare
Odessa, dal nostro inviato. Sono stufo di grandi giornate. Ho aspettato il 24 febbraio – domani – col fermo proposito di farlo passare inosservato, un giorno qualunque. Se non succederà, se ne dovrà vergognare un’ennesima volta chi ne sarà stato responsabile. Ieri mattina la reception dell’albergo, tramite una giovane signora gentilissima, ha intrattenuto uno per uno i clienti, quasi solo giornalisti, raccomandando discretamente un’attenzione particolare per i successivi tre giorni, nei quali l’anniversario dell’inizio della guerra avrebbe potuto eccitare nell’esercito invasore mosse inconsulte, e ha ricordato la disponibilità del rifugio sotterraneo.
Era una giornata insolitamente bella, di quelle in cui la primavera preme: la primavera è fatta per questa sua voglia di annunciarsi, bucaneve e vento leggero, quando manca ancora un po’. La giornata pretendeva di essere di nuovo speciale, un altro discorso di Putin, per giunta al pubblico da stadio, nel mezzo di un concerto, e l’incontro con il plenipotenziario cinese, e su e giù. Al diavolo Putin. Sono andato a visitare il cimitero storico dei cosacchi, nella vecchia periferia di Odessa, città che non finisce mai, altra ragione che renderebbe difficile impadronirsene. I cosacchi dormono su un pendio a ridosso della Shkodova Gora, la montagna (per esagerare, un rialzo) Shkodova, ondulato come se fosse stato terremotato a sobbalzi, di fronte a un altissimo canneto attraversato dal tram numero 20. Il cimitero è smesso da tempo, non è grande, poche decine di tombe, del 1791 la più antica, è commovente, ha grosse croci di Malta di pietra scura o imbiancata e sculture massicce, tutte storte e quasi rotolate giù dal pendio – rolling stones. Cosacchi difensori della fede ortodossa, sulla strada che va al promontorio di Hadzibey, il primo insediamento sull’acqua della futura Odessa, la fortezza espugnata dai cosacchi ai turchi ottomani. Poi Caterina per premiarli li deportò.
Dopo ho letto i giornali. Non erano solo deprimenti. Per esempio, Meloni che menziona i versi della poesia di un soldato volontario ucraino sull’Amore che cresce ovunque, come le more selvatiche, e si dice colpita dal modo in cui “l’amor patrio nasce spontaneamente e non sopporta costrizioni”. Meloni sta citando il bel reportage appena pubblicato da Paolo Giordano sul Corriere, e naturalmente sa, perché è sveglia, che Giordano, ottimo candidato a dirigere il Salone torinese del Libro, è stato impallinato e offeso da veti e meschinità varie, compresa la pretesa di mettergli addosso consulenti-controllori di nomina ministeriale affidabile (poveri consulenti, di destra o no che siano, a sentirsi vidimare come affidabili da un ministro). Chissà che cosa sarà ora della direzione del Salone, e se a insediarla finalmente (a giugno, pare, fra altri tre o quattro mesi di guerra europea) saranno state le more selvatiche del Donbas.
Al diavolo i giorni speciali. Al diavolo gli anniversari. Al diavolo, o peggio – idi na khui! – l’ammiraglia e il genere di Dio. Viva, vivano le notti qualunque. Ho detto altre volte del mio nuovo amico Evgenij Golubovskij, il padre di Anna, fotografa. Evgenij ha 86 anni, l’età di mio fratello, e un po’ gli somiglia, è stato un famoso giornalista e critico letterario, editore, critico d’arte, odessita ebraico da generazioni, bibliofilo, collezionista di pittura, biografo di sé e dei suoi innumerevoli amici e amiche... Sta soprattutto a casa. A casa non ha se non raramente, per minuti e quando va meglio per qualche ora, la corrente elettrica e la luce. Non ha riscaldamento. Immagino che abbia una borsa dell’acqua calda – sappiamo ancora che cos’è una borsa dell’acqua calda, vero? Lo vedo raramente, ma lo leggo tutti i giorni. Tutti i giorni pubblica, o ripubblica, sul suo facebook, lunghi testi di ricordi dei suoi grandi amici e amiche scomparsi, pieni di aneddoti vividi, corredati da scelte delle loro poesie o prose o immagini. Copio i suoi post in russo o a volte in ucraino, li traduco col miglior traduttore, imparo. Ogni volta, guardo da quanto tempo ha pubblicato il suo nuovo post. Hanno le ore più strane e alterne, non di rado nel cuore della notte. Così ricostruisco a che ora Evgenij ha avuto un intervallo di elettricità e di connessione. Fino a qualche mese fa ogni giorno trascriveva anche l’aggiornamento sull’andamento delle operazioni militari e dei bombardamenti e delle vittime, poi a questo ha rinunciato. Oggi, per esempio, mercoledì, ha scritto di Boris Slutsky, poeta, di Max Nuzhny, studioso della famiglia Tolstoj a Odessa, di Igor Kneller, cantore e musicista, di Vlada Ilyinskaya, giovane poetessa di Odessa in viaggio in Israele, al cui proposito ha scritto: “Le poesie non si scrivono, ACCADONO. Ed è così che si fanno i figli”... Evgenij Golubovskij è un volontario – un dobrovoljetz, in russo o in ucraino, credo, che vuol dire di buona volontà (c’è anche una volontà cattiva). Ha preso il suo posto nel mondo, in pace e in guerra. E’ come uno che faccia la guardia ai vivi e ai morti, ai morti soprattutto, che sono la maggioranza, fra i suoi. Si ricorda quando sono nati, quando hanno pubblicato il loro primo libro di poesie, quando hanno cantato nella loro prima opera, quando sono stati prelevati dalla polizia politica, e che faccia avevano quella volta e quell’altra. Gli anniversari che contano. Gli altri, idi na khui.