piccola posta
Tra Israele, Iran, Turchia e Georgia, c'è di che gonfiarsi il petto per i progressisti
La protesta contro il capo del governo eletto più volgarmente reazionario e incattivito della storia d’Israele, e poi quella delle ragazze e donne intrepide contro gli ayatollah. In Georgia si dimostra che le Maidan non sono affare di soldi americani. Anche in Italia qualcosa si muove
Che singolare piega psicologica hanno preso le cose per le persone progressiste: una rianimazione brusca e fiduciosamente internazionalista. Singolare, dico, perché vittorie non se ne vedono, ma d’un tratto si rivedono opposizioni ai vincitori dove sembravano esserci solo depressione lunga e catalogo di sconfitte. Bibi Netanyahu, a capo del governo eletto più volgarmente reazionario e incattivito della storia d’Israele, arriva in visita ufficiale a Roma grazie a una specie di corridoio umanitario. Dichiara, e Molinari trascrive: “L’Iran deve sapere che faremo ogni cosa in nostro possesso per evitare che diventi una nazione sulla soglia della potenza nucleare. Non c’è alcuna maniera di impedire a un regime canaglia di ottenere armi nucleari senza la credibile minaccia militare”. La credibile minaccia militare passa per le mani dei piloti riservisti che a casa, in Israele, minacciano la disobbedienza, insieme agli ex comandanti militari e agli ex capi del Mossad e al presidente Yitzhak Herzog e a una moltitudine travolgente di cittadini israeliani che si dava per sommersa sine die.
Nell’Iran, autentico regime canaglia alla vigilia della potenza nucleare, la ribellione intrepida delle ragazze e delle donne e di tanta parte della società civile ha appena spazzato via le illusioni di compromessi riformisti e con loro l’idea che il piccolo e inaridito occidente sia circondato da un grande universo in cui i suoi stili di vita siano rifiutati e disprezzati. In Georgia è bastata una donna con una bandiera europea a radunarsi alle spalle un drappello di aiutanti e a far sorgere un monumento al coraggio, e a mostrare che le Maidan non sono affare di soldi americani. In Turchia, con le galere piene di cittadini liberi e i 45 mila morti ammazzati dal terremoto e dai suoi complici, una costellazione inaudita di oppositori ha concordato di sostenere, dall’interno o dall’esterno, Kemal Kiliçdaroglu, uomo “dall’apparenza mite” (Mariano Giustino), curdo e alevita, cioè non turco e non sunnita, per contendere a Erdogan la presidenza il prossimo 14 maggio. Perfino l’Italia, a suo modo – l’Italia che non era riuscita a mettere insieme uno straccio di alleanza in elezioni condannate dunque a mettere l’estrema destra al governo – si rianima afferrando l’occasione fortunosa dell’investitura di una nuova leader del partito che, già solo perciò, è ritornato a essere il maggior partito d’opposizione. E così via.
Esempi del fatto, si può obiettare, che “ce le danno, però gliene diciamo”. Non è così, o almeno non è solo così. Certo non in Iran né a Tel Aviv né a Tbilisi, e vedremo nel resto. Comunque, eravamo così abbacchiati, mentre ce le davano e nemmeno gliene dicevamo più, che un po’ di orgoglio è tornato a gonfiarci i petti. Siamo quelli che regalano i peluche ai bambini e tirano i peluche ai ministri: non è come sciogliere i capelli a Teheran, ma è già qualcosa.