Anna Achmatova (Olycom)

piccola posta

Quel che resta del nuovo libro di Paolo Nori, mentre il mondo va esplodendo

Adriano Sofri

Leggendo "Vi avverto che vivo per l’ultima volta. Noi e Anna Achmatova", avevo provato più volte un disagio, e avevo sentito un disagio dell’autore, come di chi cammini su un orlo rischioso, e di chi lo guardi camminare

Giorni e notti gremite, col mondo che va esplodendo. Avevo dedicato sera e notte di domenica alla lettura di Paolo Nori, Vi avverto che vivo per l’ultima volta. Noi e Anna Achmatova (Mondadori). Infatti sono un lettore affezionato e grato di Paolo Nori. Lo leggo con cautela, perché viene subito voglia di imitarlo. Avevo la tv accesa all’ora del telegiornale, e poi nel programma di Concita e Parenzo c’era Paolo Nori intervistato su Russia e Ucraina. Ha detto, più o meno, che pensieri e sentimenti diversi dei vari paesi devono essere considerati anche alla luce delle loro storie diverse. La Serbia, per esempio, ha detto, simpatizza per la Russia. I serbi hanno un ricordo del bombardamento Nato su Belgrado e altrove, del 1999. L’intervista era breve, con un montaggio spezzato, dunque non so che cos’altro avesse detto. Con quel taglio, ci sono rimasto male. Il legame fra la Serbia e la Russia ha naturalmente radici tenaci e antiche, comprese le religiose. Più vicino a noi, la Serbia nazionalcomunista, e la sua filiale serbo-bosniaca di Pale, appena sopra Sarajevo, superior stabat lupus, ha fatto guerra alla ex Yugoslavia, a mezzadria con la Croazia nazionalustascista, in un modo che anticipava, sulla scala ridotta ma esemplare del famoso laboratorio balcanico, il modo della Federazione russa con l’Ucraina. Al tempo della guerra di Bosnia e del lungo assedio di Sarajevo, e poi del massacro genocida di Srebrenica, c’era stato in Italia, dentro il nome all’ingrosso di pacifismo, un atteggiamento di simpatia serbista che a sua volta anticipava quello attuale verso la Russia. (Anche da Belgrado e dalla Serbia, allo scoppio della guerra, un numero importante di cittadini, giovani soprattutto, erano andati via, per il dissenso o per la paura della guerra). Il bombardamento del 1999, così assiduamente ricordato nell’ultimo anno – lo deprecai allora, auspicando che la difesa dei kosovari avvenisse con un’interposizione di terra – è tuttavia incomparabile, ammesso che le comparazioni servano, con il bombardamento e il tiro a segno di anni su Sarajevo e altre città bosniache. Che finì alla svelta quando, tardi, tardissimo, finalmente, si alzarono in volo gli aerei della Nato. Era il settembre 1995. L’assedio di Sarajevo era cominciato nell’aprile 1992.

 

All’alba avevo finito il nuovo libro di Nori. Molto bello. Questa volta, leggendo, avevo provato più volte un disagio, e avevo sentito un disagio dell’autore, come di chi cammini su un orlo rischioso, e di chi lo guardi camminare. Magari ci tornerò, ho l’impressione di capire, come si può, quando racconta di amare la letteratura russa e la poesia russa e la Russia al punto di averne paura. Sto in un punto molto diverso dal suo, sto nettamente dalla parte dell’Ucraina, che cacci dalla sua terra quella Russia di cui si ha solo paura e disgusto senza amore, e a questa condizione dissento dai moltissimi ucraini che ripudiano con la Russia che li ha aggrediti e offesi anche la poesia, e la stessa lingua che è stata per tanti di loro materna e paterna. Li rispetto, quando dicono che non possiamo capire. Provo a capire, e dissento. Però siamo troppo pochi. C’è un’ostilità svergognata all’Ucraina che oltraggia ogni spirito di verità e di libertà. E c’è una solidarietà con l’Ucraina che rinuncia, magari rinviandola a un domani, a “dopo la guerra”, il rispetto per un patrimonio di memoria che la Russia di Putin e il suo delirio imperiale non hanno il diritto di confiscare.

 

Bene. Paolo Nori però ha scritto un libro su Achmatova – e sul suo Chlebnikov, e noi. A pag. 103 scrive: “Dice l’Achmatova che quando era Mandel’stam a recitare i suoi versi, ‘sembrava che si fosse alzato in volo un cigno’, che è la recensione più bella di una poesia che io abbia mai sentito in vita mia”. Sono rimasto un po’ in pensiero. Perché con i cigni è un po’ come con l’albatros o con l’anatra di La Capria, i cigni fanno fatica a tirarsi su dall’acqua, sbattono e ci mettono un po’ a decollare, e solo dopo prendono quel volo affusolato e sicuro e maestoso. Ma è vero, è così bella la recensione di Achmatova perché il suo cigno bellissimo è in volo, ma appena poco fa bisognava che si alzasse. Mi pare.

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