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Chi erano i membri del battaglione Bozen spiegato da chi ne fece parte

Adriano Sofri

Il giornalista Umberto Gandini, per il quotidiano Alto Adige, nel '79 andò ad ascoltare la voce dei membri viventi della formazione colpita in via Rasella. E il proposito del battaglione Bozen era di farne una truppa per la lotta antipartigiana

Il frastuono che si è rialzato grottescamente sull’azione militare di via Rasella è stato così fitto da rendere difficile tenergli dietro. Salvo dunque che mi fosse sfuggito, solo ieri è stata recuperata dalla stampa quotidiana la serie di testimonianze raccolte in quattro articoli, nel 1979, da Umberto Gandini per il quotidiano Alto Adige, e poi pubblicate in volume. Gandini (1935-2021) è stato giornalista, romanziere, formidabile traduttore. Pensò allora di andare ad ascoltare la voce dei membri viventi del cosiddetto Battaglione Bozen, il Polizeiregiment la cui 11esima compagnia era stata colpita in via Rasella. Rievocando il lavoro di Gandini sull’Alto Adige di ieri, Paolo Cagnan ricorda il proposito originario della formazione del battaglione, farne una truppa per la lotta antipartigiana, e l’atteggiamento dei responsabili: l’ufficiale boemo Hans Dubek e il tenente prussiano Walter Wolgasth, che trattano quei sudtirolesi, venostani, ladini ecc., “con una vena di razzismo”, li chiamano “maledette teste di legno” e valligiani. Alcuni di loro sono tepidi verso la causa nazista, altri fanaticamente attratti. Alcuni dei testimoni negano la voce, che si continua a ripetere, che si fossero rifiutati di partecipare all’eccidio delle Ardeatine. Se l’avessero fatto, sarebbero stati giustiziati. Furono i loro ufficiali a raccomandare a Kesselring di non impiegarli, ritenendoli militarmente inaffidabili. Non tutti risposero a Gandini. In maggioranza si dichiaravano soldati che avevano combattuto per la loro causa.

Quanto ai Gap, l’articolo ricorda che per molto tempo, e ancora oggi dopo le frasi di La Russa, si disse che avrebbero dovuto consegnarsi, conoscendo la conseguenza della decimazione. Ma lo stesso maresciallo Kesselring, al processo, quando il giudice gli chiese se avessero rivolto qualche appello ai responsabili della bomba prima di ordinare la rappresaglia, rispose: “No, non lo facemmo, anche se, vista ora, l’idea sarebbe stata molto buona”. E poi conclude: “Se avessimo subito comunicato la decisione di uccidere quei più di 300 italiani, avremmo rischiato una sollevazione massiccia a Roma”. Al colonnello Herbert Kappler fu chiesto: “Gli attentatori avevano un qualche obbligo morale o militare di consegnarsi?”. “E’ assurdo pensare che un attentatore si presenti al nemico, mettendo così a repentaglio tutta l’organizzazione. Se avessi io questa responsabilità, non lo farei perché consentirei a noi, cioè al nemico, di torturare ed estorcere informazioni decisive”.

(Un riepilogo esauriente, fonte del pezzo dell’Alto Adige, delle testimonianze raccolte da Gandini e della pubblicistica pertinente si legge, a firma di Pino Loperfido, su Trentinomese del 26 marzo scorso). Vorrei consigliare anche l’ascolto, su Radio Radicale, della presentazione del libro di Carlo Maria Fiorentino “L’armata delle ombre. Gappisti e militari a via Rasella (Roma, 23 marzo 1944)”, Libreria Editrice goriziana, del 24 novembre 2022). L’autore ha dato fondo alla documentazione archivistica, ricavandone informazioni e ipotesi nuove. Nella discussione, lo psicologo Luciano Mecacci, che da anni si è fatto anche storico dell’uccisione di Giovanni Gentile, avvenuta a breve distanza, 23 marzo-15 aprile, dall’attacco di via Rasella (“La ghirlanda fiorentina e la morte di Giovanni Gentile”, Adelphi 2014), sottolinea analogie e connessioni fra i due eventi, i più controversi e laceranti di quella stagione di tragedia e riscatto. E, srotolando il suo filo, si spinge a ritrovarne gli esiti nel “caso Moro” e nella Firenze di quel 1978 – troppa grazia, forse.

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