Carlo Rovelli (Ansa)

Piccola Posta

All'escalation reale delle armi risponde l'escalation verbale di casa nostra. Da che parte stare

Adriano Sofri

Mentre la Russia ora rivendica di essere stata aggredita, da una vera guerra, cui ha sobriamente risposto con un’operazione speciale, in Italia continuano ad aumentare le posizioni di chi scambia la resa e la sconfitta dell'Ucraina per la pace. Da Odifreddi e Ovadia a Rovelli e Mannoia

C’è un’escalation reale, e una paventata, delle armi, e un’escalation incontrollata delle parole e dei proclami. Ieri Putin ha fatto sfilare nella Piazza Rossa un solo imbarazzato carro armato, un T 34 della Seconda guerra, un esemplare di quelli che in ogni città grande e piccola dell’ex Urss troneggiano su un piedistallo alla memoria. Niente parata aerea, niente sfilata del Reggimento immortale, ribasso dell’esibizione di congegni, in compenso rincaro delle parole impudenti. E’ il cuore dell’assestamento cui la piega imprevista e disgraziata della guerra ha costretto Putin, che ora dice: “Contro la nostra patria è stata scatenata una vera guerra”.

 

Un tale rovesciamento non può che provocare degli aggiustamenti anche nelle file degli indulgenti simpatizzanti per la resa e la sconfitta dell’Ucraina. Il cui denominatore comune era la premessa retorica: “La Russia è l’aggressore, ma…”. Ma bisogna considerare i precedenti, e la complessità, e… La Russia ora rivendica di essere stata aggredita, da una vera guerra, cui ha sobriamente risposto con un’operazione speciale. Anche da noi il tempo lavora per l’escalation dell’avventura verbale. Lunedì, sulla Stampa, Piergiorgio Odifreddi ha scritto che “chi vuole veramente la pace… dovrebbe evitare di difendere l’integrità territoriale delle nazioni”. Norma notevole, in generale, e nel caso specifico dell’Ucraina invasa. Qualche giorno prima, il mio beniamino Carlo Rovelli, ospite di De Gregorio e Parenzo, aveva dato un esempio ultimativo della sua convinzione che “la realtà non è come ci appare”, mettendo in forse l’idea che in Italia si fosse combattuta una guerra di liberazione.

 

 

Superando così d’un colpo la strenua e scandalizzata opposizione dei pretesi eredi della lotta partigiana a ogni paragone fra la Resistenza italiana di allora e quella ucraina di oggi: non c’è, né l’una né l’altra. Quanto al richiamo alla Seconda guerra mondiale – almeno in quella, c’era una parte da cui stare? – Rovelli lo respinge, in nome della catastrofe che ha inghiottito tutto e tutti. La nozione stessa, nobile nozione, del paradosso (“esagerazione”, la chiama, “iperbole”) passa attraverso una avventurosa metamorfosi – “e allora, perché non dare le armi ai talebani?”. Sottoposto a una tale capriola, il paradosso ricade al suolo come un passeggero senza biglietto da un tram in corsa. (E’ notevole comunque che a esprimere la propria appassionata adesione a quella performance televisiva si affrettino donne e uomini persuasi di essere molto di sinistra). 

 

Nello stesso numero della Stampa che ho citato sopra, la cronaca della Staffetta dell’Umanità per la pace cita l’argomentazione di Moni Ovadia: “La Nato, che si dice alleanza difensiva, con le bombe atomiche si è sempre più avvicinata ai confini ed è logico che Putin si sia fatto la domanda: mi considerate un nemico? E io come devo considerarvi?”. Ma la Russia di Putin, piegata sotto il peso delle sue migliaia di bombe atomiche (comprese quelle cortesemente affidatele dall’Ucraina indipendente) non si trova forse ai confini di quei paesi, che prima o poi hanno desiderato ripararsi sotto l’ombrello della Nato – quello sotto il quale si sentiva più al sicuro Enrico Berlinguer? Un’altra illustre partecipante alla staffetta, Fiorella Mannoia, dice: “Io sono con il popolo ucraino, non con quel farabutto di Zelensky”. Quello che si chiama parlare chiaro. Ma il popolo ucraino, che sta in una indubbia maggioranza con quel farabutto di Zelensky, non sta dunque con il popolo ucraino?