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Noi, sodali dell'Ucraina ma non nelle sue trincee, e le “regole del discorso”

Adriano Sofri

Qualche giorno fa la scrittrice Masha Gessen si è dimessa dalla vicepresidenza della filiale americana del Pen International, l’organizzazione non governativa più prestigiosa per la difesa della libertà di espressione. C'entra la questione dello spazio alle voci russe dopo l’invasione

L’Italia conosce Masha Gessen (Mosca, 1967 – dal 2013 vive a New York) e la sua posizione sul regime russo attraverso libri importanti come “Il futuro è storia”, Sellerio 2019, e “L’uomo senza volto. L’improbabile ascesa di Vladimir Putin”, Sellerio 2022 (una prima versione era uscita nel 2012 per Bompiani). Qualche giorno fa Gessen si è dimessa per protesta dalla vicepresidenza della filiale americana del Pen International, l’organizzazione non governativa più antica e prestigiosa per la difesa della libertà di espressione di scrittori e giornalisti. Un articolo dell’Atlantic racconta l’accaduto e ne ricapitola i precedenti, l’ostilità o la riluttanza dei paesi occidentali a far spazio a voci russe dopo l’invasione dell’Ucraina. 

Il festival annuale World Voices del Pen American aveva in programma una settimana fa una tavola rotonda di “scrittori in esilio”, moderata da Gessen: ospiti uno scrittore cinese e due russi, il giornalista e storico Ilia Veniavkin e la narratrice Anna Nemzer, fuorusciti dalla Russia subito dopo l’invasione dell’Ucraina. Alla vigilia, l’incontro è stato cancellato, “per circostanze impreviste”; agli spettatori si è assicurato il rimborso del biglietto. Era successo che altri due invitati al festival, scrittori ucraini, in una breve licenza dalla loro milizia al fronte, Artem Chapeye e Artem Chekh, avevano dichiarato di non poter condividere la presenza con autori russi: “Fino alla fine della guerra, un soldato ucraino non può farsi vedere accanto ai russi, nemmeno distinguendo fra russi ‘cattivi’ e ‘buoni’”. La ceo di Pen, Suzanne Nossel, parlando di “situazione difficile”, l’ha resa più difficile suggerendo che gli ucraini si sarebbero sentiti “minacciati” – in patria, credo che intendesse. Si è ventilata la possibilità di spostare l’incontro coi russi sotto una diversa dicitura, e Gessen l’ha respinta senza riserve: “Come se mi fosse stato chiesto di dire a queste persone che, essendo russe, non possono sedersi alla tavola dei grandi, ma devono sedersi al tavolino in disparte. Idea di pessimo gusto”. Gessen chiarisce di non aver affatto pensato a un incontro congiunto di russi e ucraini, che avrebbe implicato una “equivalenza morale” impossibile. E di considerare “del tutto comprensibile” la posizione degli ucraini, quando il loro paese e centinaia di migliaia di loro concittadini sono brutalmente uccisi, e il loro desiderio di far sentire una voce cancellata per secoli, e di escluderne i russi. Ma quanto al Pen, è altro affare. “Spetta alle persone il cui paese non è stato invaso, i cui parenti non sono stati fatti sparire, le cui case non sono state bombardate, dire che ci sono cose che noi non facciamo, che noi non mettiamo a tacere le persone. Siamo un’organizzazione per la libertà di espressione. Non ne incolpo gli ucraini. Ma non posso guardare negli occhi i miei colleghi russi”.

“Non sono – dice Gessen – per l’assolutismo della libertà di parola. In questo paese regoliamo continuamente il discorso. La nostra discussione sarebbe molto più significativa se riconoscessimo che diamo delle regole al nostro discorso e chiarissimo perché e come lo facciamo”. Al contrario, l’esclusione dei russi non è venuta da un confronto ma da un ultimatum di fatto degli ucraini. “Senza nemmeno una traccia della cancellazione sul sito web!”. Il presidente del consiglio del Pen, Ayad Akhtar, ha detto all’Atlantic che “la decisione è stata presa sulla base di considerazioni umane. Se l’avessimo presa sulla base di princìpi, avrebbe comportato un costo umano inaccettabile in questo momento, con quello che succede in Ucraina”.

La controversia si aggiunge a tante altre simili avvenute nel corso di questi quindici mesi di guerra. Ma ha un rilievo peculiare. Non solo perché l’obiezione di coscienza – è giusto chiamarla così – viene da una persona strenuamente impegnata nella denuncia del totalitarismo triviale di Mosca, ma per la distinzione che Gessen propugna. Noi, quelli di noi che sono appassionatamente dalla parte degli ucraini, della loro sofferenza e della loro resistenza, tuttavia non siamo ucraini (non ancora?). Non sprofondiamo nel fango delle loro trincee e non cerchiamo di prendere sonno nelle loro case bombardate. A noi spetta di pagare uno scotto del nostro privilegio. E intanto, chiarire a noi e agli altri come e perché “regoliamo il nostro discorso”. Il passante che cancella una lezione universitaria su Dostoevskij è l’incidente della sciocchezza e dell’eccesso di zelo che chiude una discussione piuttosto che aprirla. La discussione si chiude sia che ci si adegui al ricatto comprensibile degli scrittori combattenti ucraini (che a loro volta evocano il ricatto comprensibile dei loro commilitoni e connazionali), sia che lo si respinga chiamandolo sprezzantemente ricatto e togliendogli l’aggettivo. 

Nel marzo dell’anno scorso, la filiale ucraina di Pen aveva fatto appello a un “boicottaggio totale dei libri provenienti dalla Russia in tutto il mondo”. Si replicò che lo statuto di Pen dichiara che “in tempo di guerra, le opere d’arte, patrimonio comune dell’umanità, devono essere illese dalla passione nazionale o politica”. Pen Germania coniò il motto: “Il nemico è Putin, non Puskin”. La questione non riguarda solo l’arte o la cultura – o la lingua, la più sacra delle proprietà private, l’ultima a poter essere bandita. L’Ucraina ha rinunciato quasi dall’inizio a far posto nella propria rivendicazione ideale al dissenso russo, quello di chi ha “votato coi piedi” abbandonando il paese, e alla vera opposizione, quella di chi ha scelto di parlare liberamente al costo della galera. Anche questo è “comprensibile”, è il ripudio senza esitazioni di tutto ciò che sta dentro un nemico che si chiama fraterno e vuole schiacciarti e mortificarti col diritto di chi ti ha mortificato e schiacciato da sempre. Ma per noi, solidali appassionatamente, che non siamo ucraini, una posta della “vittoria” che auguriamo loro, senza accamparci a disegnatori di territori e di confini, è la possibilità di tornare un giorno a leggere Dostoevskij e sentirlo proprio, come lo consideriamo nostro noi, anche quando abbiamo letto il “Diario di uno scrittore” e abbiamo saputo del suo antisemitismo, del suo disprezzo per i polacchi, del suo fanatico messianismo ortodosso. Del mondo russo. Occorrerà del tempo, e ci riguarderà, ci riguarda già.

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