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Gli ultimi femminicidi, la statistica e uno slogan stupido e falso, ma non inutile

Adriano Sofri

Molti uomini reagiscono dicendo "questo orrore non mi somiglia e non mi coinvolge". Ci mancherebbe. Ma si privano della possibilità di vedere, nella manifestazione mostruosa, il punto d’arrivo di una catena di relazioni i cui sintomi iniziali stanno nell’esperienza di ciascun uomo

Ieri molti giornali accompagnavano alle cronache e ai commenti sull’assassinio di Giulia T. e della creatura che aveva in grembo, una rassegna di femminicidi scelti fra i più efferati, per la concezione, per il modo, in qualche caso per il coinvolgimento di figli bambini. Una galleria degli orrori tesa forse a mostrare come il crimine sacrilego di Senago non costituisse comunque una vera eccezione. Tuttavia davvero eccezionali sono stati il raccapriccio e la ripugnanza per i dettagli di questa storia, al punto che l’altra, l’assassinio romano di Pierpaola R., avvenuto a ridosso e quasi in appendice alla prima – un femminicidio di fondo pagina – ha rischiato per un momento, involontariamente, spaventosamente, di apparire come un ritorno alla normalità. Un uomo, un poliziotto, che tende un agguato nell’androne di casa alla donna, ispettrice di polizia, che non l’ha più voluto ed è tornata a vivere in famiglia, e le spara tre colpi della pistola di ordinanza mentre lei si avvia a completare la pratica per una sua chemioterapia. (Poi l’uomo va un po’ più in là e si spara: che non è né meglio né peggio che restarsene vivo, semplicemente permette ai titolisti di evocare una specie di pareggio). Che una notizia così, coi suoi scarni dettagli, possa per un momento mostrarsi come una rivincita della statistica, la grande anestesia, sull’orrore singolare, è un punto di cui i romanzieri del futuro, se i romanzi avranno un futuro, dovranno far tesoro.

E anche di un’altra cosa, già nota e ripetuta ma rieccitata dal ribrezzo di Senago, la protesta intima, sincera, invincibile, che tanti uomini sentono il bisogno di esprimere: “Io non sono così, lui non è come me, questo orrore non mi somiglia e non mi coinvolge”. Ci mancherebbe altro. Ma quelli di noi uomini che reagiscono così, penso, si privano di una possibilità. Di vedere nella manifestazione estrema e, perché no, mostruosa, un punto d’arrivo tutt’altro che necessario e anzi raro, rarissimo (per l’anestesia statistica) di una catena di relazioni i cui sintomi iniziali stanno nell’esperienza di ciascun uomo, senza renderlo colpevole se non di essere uomo in un mondo dove gli uomini sono più forti e per lo più se ne rallegrano e, anche se non vogliono più compiacersene e approfittarne, ci sono abituati, molto abituati.

Lo slogan per cui in ogni uomo sonnecchi un assassino di donne, un femminicida, è stupido, falso e oltraggioso, ma non inutile. Serve a far crescere meno lentamente una oscura e penosa sensazione che ha la sua controprova nel pensiero che, a quanto pare, si è fatto parecchia strada fra le donne: che in ogni uomo, l’uomo di casa, il collega d’ufficio, lo sconosciuto di sera, l’uomo di cui ci si innamora – addirittura? Anzi, specialmente! – si annidi un nemico, forse mortale.

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