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La diga era pronta per essere rotta. I simboli della resistenza e una domanda: se toccasse a me?

Adriano Sofri

Gli emblemi nazisti, i “patrioti russi” e l’amore ucraino per la libertà, un sacrificio che oggi appare come la sola via verso una conclusione che non sia iniqua, oltraggiosa e rovinosa

Era annunciato. I russi avrebbero messo in gioco la centrale nucleare di Enerhodar, la via di mezzo della scalata atomica. La diga di Kakhovka era da sempre pronta a essere rotta, per allagare il terreno del confronto meridionale fra le due sponde del Dnipro, sulla strada della Crimea. L’Italia di questi giorni, l’Emilia e la Romagna, possono figurarsi esattamente che cosa voglia dire essere allagati e dover disporre la fuga mentre ti bombardano scrupolosamente addosso.

E’ incoraggiante che il cardinale Zuppi, don Matteo, fosse a Kyiv ieri. Ho immaginato dal principio che avrebbe desiderato andare in Ucraina, e che gli costasse pazientare fino a che le convenienze lo permettessero. E’ un gran guadagno conoscere l’Ucraina sotto un cielo che minaccia di piovere missili.

Qualcuno chiede: Che cosa faresti se toccasse a te...?, qualcuno si chiede: Che cosa farei se toccasse a me...? – di decidere come difendere il paese e la sua gente.

C’è, qui al sicuro, un gran numero di persone che non sogna nemmeno di domandarselo, che si pronuncia con una sicumera da Prigozhin, e non sa sentire che privilegio sia essere esonerati da una simile responsabilità.
Non tocca a me. Per questo non posso che essere solidale con coloro cui tocca. Al Papa, e ai suoi cardinali, obietto solo che la ripetizione ostinata del valore della pace e della pazzia della guerra può avere l’effetto involontario di far passare chi si batte, e chi lo sostiene, per un devoto alla guerra, o almeno un renitente alla pace. (C’è quella lettera del Papa, novembre 2022, che diceva: “Penso poi a voi, giovani ucraini, che per difendere coraggiosamente la patria avete dovuto mettere mano alle armi anziché ai sogni che avevate coltivato per il futuro”).

Toccasse a me, vorrebbe dire che il mondo sarebbe un altro mondo. Annuncerei che la controffensiva è finalmente matura. Conoscerei tutte le lingue, e direi prima in ucraino poi in russo, all’uomo del Cremlino e al suo patriarca: “E’ tutto pronto, e sapete una cosa? Non la facciamo più. Vi disprezziamo troppo per prendervi ancora sul serio. E abbiamo deciso di salvare non solo la vita dei nostri, ma anche quella dei vostri, visto che voi non volete e non sapete farlo”. Naturalmente, il mondo non è un altro mondo. Non succederà niente del genere. Se succedesse, forse Putin non sopravvivrebbe.

Dunque confido nell’efficacia del sacrificio ucraino, che oggi appare come la sola via verso una conclusione che non sia iniqua, oltraggiosa e rovinosa. Confido che l’amore degli ucraini, combattenti e resistenti civili, per la libertà e la democrazia, non ceda a sentimenti torbidi in nome di un fine estremo, un aut-aut che giustifichi i mezzi.

Ieri, sul New York Times, un articolo di Thomas Gibbons-Neff argomentava che “l’uso da parte delle truppe di distintivi con emblemi nazisti rischia di alimentare la propaganda russa e di diffondere immagini che l’occidente per mezzo secolo ha cercato di eliminare”. E’ così, salvo che si tratta di tre quarti di secolo e passa. L’autore scrive del disagio degli osservatori: “Richiamare l’attenzione sull’iconografia rischia di favorire la propaganda russa. Non dire nulla permette a quella propaganda di diffondersi”.

Qualche giorno prima, era stato Illia Ponomarenko, inviato del Kyiv Independent, a firmare un reportage intitolato: “Perché dei soldati ucraini portano insegne di stampo nazista”. “State seguendo da vicino la storia vivente di una nazione che resiste coraggiosamente a una guerra di aggressione imperialistica che ha ispirato il mondo intero quando, all’improvviso, vi imbattete nella foto di un soldato ucraino che indossa una toppa con il teschio e le ossa incrociate di Totenkopf, o fa il saluto nazista”. L’autore ripercorre i tormentosi e ambigui precedenti storici, avverte che “l’Ucraina non è più ‘nazista’ di qualsiasi altro paese che ha il suo piccolo numero di disadattati che ammirano Hitler e formano gruppi e bande marginali basati su queste idee – come il Regno Unito ha l’organizzazione neonazista Combat 18, gli scandinavi hanno il Movimento di resistenza nordica gli Stati Uniti hanno la Fratellanza ariana – e l’unità paramilitare russa neonazista Rusich utilizza sia la svastica che il simbolo 88, un codice numerico ‘Heil Hitler’, e Dmitriy Utkin, il presunto cofondatore e comandante supremo del famigerato esercito mercenario Wagner Group, ha una grande svastica e il simbolo della Wehrmacht tatuati sul corpo” – e fa la storia del battaglione Azov e del suo svolgimento. E conclude auspicando “ulteriori severe azioni punitive per chi indossa simili insegne. I simboli nazisti non meritano di stare sulla spalla di un soldato ucraino in questa guerra, dove l’Ucraina sta combattendo per i valori fondamentali su cui si fonda il mondo libero e democratico”.

La questione si è esacerbata con i “patrioti russi” sulla ribalta di Belgorod. Il risultato militare delle loro incursioni è più importante che l’esibizione della loro consistente posizione di “estrema destra”? (Una “destra” russa, tutt’altro che libertaria, nemica di un Putin “di sinistra”?). E’ difficile accettare una risposta “economica”, per così dire, di costi e ricavi. Giorni fa, nella spettacolare convocazione della stampa internazionale patrocinata dai militari ucraini attorno agli attori dell’impresa di Belgorod, figurava un miliziano definito “suprematista” con il simbolo del Ku Klux Klan in bella mostra sul giubbotto. Penso che si riproponga ogni volta quel giudizio, che un dettaglio simile possa costare più di una battaglia perduta.

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