piccola posta
Decifrare Prigozhin rileggendo l'impostore cosacco Pugačëv
Il capo della Wagner è un mostro odioso, mentre il cosacco era un mostro simpatico. Catturato, messo alla gogna, giustiziato, lui non si fermò a mezza strada – a mezza autostrada
Era chiaro soltanto che bisognasse prendere tempo e fischiettare, prima di spacciare interpretazioni perentorie sulla drammatica farsa russa, peraltro ancora in corso. Era bensì inevitabile la reazione: “Aridatece li sordi”. Ma là fermarsi. Con un notevole talento comico si è proclamato che il mezzo golpe sia stato né più né meno che una messinscena diretta da Vladimir Putin, concordata con Evgeni Prigozhin, e tesa a far esporre i falsi amici intestini o i tentennanti, e farli fuori. Al modico prezzo di un appello al popolo russo in cui lo zar dichiarava l’ora fatale della salvezza o della fine della Madre Russia, messa all’estremo repentaglio dal suo cuoco. Il quale, distratto dalla marcia sul Cremlino, aveva dimenticato in divieto di sosta un paio di furgoni con miliardi di rubli in contanti.
Ieri Ezio Mauro ha citato la tradizione dei rivoltosi cosacchi, come Sten’ka Razin. Io sono più affezionato all’impostore cosacco di un secolo dopo, Pugačëv, grazie alla lettura adolescente della “Figlia del capitano”. Prigozhin non è cosacco e soprattutto è un mostro odioso, mentre Pugacëv era un mostro simpatico. Un’amica letterata di recente si era sorpresa della mia opinione sulla simpatia di Pugačëv. Allora ho riletto il romanzo (che Puškin aveva preparato con la “Storia della rivolta di Pugacëv”, nel 1834) e le poche limpide paginette dell’introduzione di Leone Ginzburg per l’edizione Einaudi, in cui si legge: “L’ingegno e l’ardimento singolari del cosacco analfabeta Emel’jan Pugačëv... suscitavano in Puškin una simpatia umana più seria del consueto interessamento romantico per il ‘brigante’”. E oltre: “Quello stupendo Pugačëv, col suo immutabile fondo di furbizia paesana... finché, da ultimo, il successo non lo rende insieme vanitoso e malinconico, e pensa a misurarsi nell’arte militare con Federico II, ma anche alla propria inevitabile rovina”. Il punto decisivo è che lui non si fermò a mezza strada – a mezza autostrada.
Disse: “Da’ tempo, ci sarà ancora ben altro quando marcerò su Mosca!”. Grinëv, il giovane alfiere protagonista del romanzo, gli chiede: “E tu pensi di marciare su Mosca?”. L’impostore stette un po’ a pensare e disse a mezza voce: “Lo sa Dio. La mia strada è stretta; ho poca libertà. I miei ragazzi vogliono saperla lunga. Sono ladroni. Devo tenere l’orecchio teso: al primo insuccesso, si assicureranno la vita con la mia testa”. “Appunto! Non sarebbe meglio che ti separassi tu in tempo da loro, e ricorressi alla clemenza dell’Imperatrice?”. Pugačëv sorrise amaramente. “No, è troppo tardi perché io mi penta. A me non si farà grazia. Continuerò come ho cominciato. Come si fa a saperlo? C’è caso anche che riesca”…
Catturato, messo alla gogna, giustiziato, a chi lo avesse ammonito sulla fine cui la sua avventura lo destinava inesorabilmente, avrebbe risposto: Sì, ma io sono stato zar! Falso, sia pure, non per molto, sia pure, ma zar!
Anche Grinëv arriva alla conclusione sulla simpatia: “Non posso spiegare quello che sentivo nel separarmi da questo tremendo uomo, che era un mostro e un malfattore per tutti, fuorché per me solo. Perché non dire la verità? In quel momento una forte simpatia mi attirava verso di lui. Desideravo ardentemente di strapparlo dall’ambiente dei malfattori che egli capeggiava, e salvare la sua testa finché si era ancora in tempo”.
Ammesso che avesse ceduto alla tentazione di farsi zar, Prigozhin ha provato a salvare la testa. Chissà se ce la farà. In ogni caso, non meriterà un alfiere Grinëv innamorato della figlia del capitano a raccontare con simpatia la sua storia. Quanto a quell’altro, il colonnello del kgb che si è preso per Pietro il Grande, ormai è definitivamente un impostore. Un vero impostore.