piccola posta
Pensieri sparsi vedendo in un baluginio di verde e azzurro la foto di un ramarro
I pensieri di ospedale sono mediocri, almeno per i recidivi: la caducità ti sta ormai alle spalle. La notte è lunga, ma è lunga dovunque. Non ho fatto che ripensare al ramarro
Scherzo col mio illustre cardiochirurgo: ogni volta che lo incontro, mi opera. Durante questo grato passaggio mi capita, non so più da quale pagina, la fotografia di un ramarro che ha spodestato qualche altro residente nella fessura di un tronco, sono distratto, appena un baluginio di verde e azzurro.
I pensieri di ospedale sono mediocri, almeno per i recidivi: la caducità ti sta ormai alle spalle. Si curano tanto di te che rinunci a farlo tu stesso, aggrovigliato in tubicini e cavi, e attento al bilico del tavolino da letto, come stare in crociera. La notte è lunga, ma è lunga dovunque. Non ho fatto che ripensare al ramarro. Da quanti anni non ne ho visto uno. Erano del tutto familiari alla mia infanzia e anche per un bel po’ dopo. I bambini avevano una passione per le lucertole, non di rado deviata alla caccia col flobert, o alla cattura crudele con un cappio di avena. Più tardi ebbi voglia di farmi esperto della lucertola wagleriana della riserva dello Zingaro, per vantare almeno una specializzazione – mancata.
I ramarri sono troppo belli. Mi ha preso un’ansia all’idea che da tanto tempo non ne avessi più visto uno, e che forse l’ultimo che avevo visto sarebbe stato davvero l’ultimo. Me ne sono ricordato, dell’ultima volta. Era sui muretti a secco dell’isola di Mozia, in piena estate, non ero solo. Decine di anni fa. Una classicità compendiata, il bianco dell’efebo e lo smeraldino del ramarro. (Trad., apocrifa, di Faber e Bubola: La strada è lunga ma vedo la fine, / Arriveremo per il ballo / E Dio ci apparirà sulle colline / Coi suoi occhi smeraldini di ramarro).
Basta un telefono a risarcirsi dell’assenza – virtualmente, come si dice, cioè a vanvera. Nell’ordine: un tiktoker celebre di nome Ramaarro (due a), i tifosi del Pordenone Calcio, un premio serio appena assegnato a Daria Bonfietti, un film sul morso del ramarro, e naturalmente il Ragazzo morso di Caravaggio, la tavola del Lotto, e una precoce raccolta di poesie di Volponi, da me rimpianto, e il fulmineo Montale: “Il ramarro, se scocca / sotto la grande fersa / dalle stoppie…”. Eccetera. Ma le risorse di Google sono infinite, e riesco a esumare, da un sito accademico, il saggio glottologico di Giulio Bertoni, 1913, sopra le “Denominazioni italiane del ramarro” – una inesauribile girandola di varianti. Mi ricordavo un triestino “sariàndola” per lucertola, che rende l’idea. Quanto all’etimologia (nelle altre lingue è sempre la “lucertola verde” o anche, in tedesco, “ramata”) resta dubbia. A Trapani, dunque forse a Mozia, il ramarro si chiama anche Guardaomini.
E’ in Dante, e in Leonardo da Vinci: “Il ramarro, fedele all’omo, vedendo quello addormentato, combatte con la biscia, e se vede non la poter vincere corre sopra il volto dell’uomo e lo desta acciò che essa biscia non offenda lo addormentato omo”. E’ lui l’amico dell’uomo.
All’indomani ho letto sull’incendio nella casa di riposo milanese – l’eterno riposo. Crebbi in un mondo di ramarri. Vissi poi in un altro mondo. Ho cercato un’ultima notizia, con apprensione: dice di no, il ramarro, il nostro, dà una “minima preoccupazione – in diminuzione”. Non è a rischio di estinzione. Non lui.