piccola posta
Pugacëv e Grinëv. Le spettacolari agnizioni fra le pagine di Pushkin
Digressione sul colpo di scena: quello di cui si fa duplice uso in “Figlia del capitano”. Pushkin aveva preparato il romanzo amato da Gogol’ e da Dostoevskij con una “Storia della rivolta di Pugacëv” ripubblicata in questi giorni
L’agnizione è il vero tesoro (non più) segreto della letteratura occidentale – e poi del cinema. Avete visto “Le regole del caos”? La giardiniera Sabine – Kate Winslett – sta consegnando delle piante al giardino di Luigi XIV, e ci trova un signore, piuttosto affranto, seduto su una panchina in mezzo ai rigogliosi peri. Lo prende per il giardiniere, gli chiede di darle una mano a scaricare. Lui la aiuta, poi si mettono a chiacchierare. Lui è il re, è andato a starsene un po’ solo perché è appena morta la sua Maria Teresa. L’agnizione funziona meglio quando lo sconosciuto, qualunque è il re, o la zarina Caterina II, o il Papa, o una dea dell’Olimpo. O di più. C’è un’altra agnizione, la più memorabile, anche qui lei scambia lo sconosciuto per un giardiniere, o un ortolano. Lei è la Maddalena nel Vangelo di Giovanni, lo cerca: “Si voltò indietro e vide Gesù che stava lì in piedi; ma non sapeva che era Gesù. Le disse Gesù: ‘Donna, perché piangi? Chi cerchi?’. Essa, pensando che fosse il custode del giardino, gli disse: ‘Signore, se l’hai portato via tu, dimmi dove lo hai posto e io andrò a prenderlo’. Gesù le disse: ‘Maria!’. Essa allora, voltatasi verso di lui, gli disse in ebraico: ‘Rabbunì!’, che significa: Maestro!” Lei l’ha riconosciuto quando lui l’ha chiamata col suo nome.
Non è più un segreto, dunque. Già Aristotele aveva spiegato la potenza dell’agnizione – anagnòrisis, in greco. Il nostro contemporaneo Piero Boitani, uno della posterità di Ulisse, ha ripercorso l’intera cosa in un gran libro, “Riconoscere è un Dio. Scene e temi del riconoscimento nella letteratura”. Einaudi, 2014.
Voglio prendermi una licenza letteraria, col favore dell’intrattenimento estivo e di una coincidenza. L’altro giorno, sulla scia del chiasso per l’odioso Prigozhin, avevo ricordato il “simpatico” Pugacëv della Figlia del capitano. Pushkin aveva preparato il romanzo con una “Storia della rivolta di Pugacëv” (1834), tradotta da noi da Ettore Lo Gatto: che proprio in questi giorni l’editore Quodlibet di Macerata ha ripubblicato (un’altra traduzione, del romanzo e della storia, era uscita nel 1995 per Newton Compton a cura del bravissimo Mauro Martini, col titolo originario, “Storia di Pugacëv”, che non era piaciuto allo zar: un cosacco impostore non meritava una storia tutta per sé). Pushkin la compose sulle carte d’archivio allora disponibili, pressoché contemporaneamente alla stesura del romanzo, e nella storia, pur documentalmente scrupolosa, figurano brani romanzescamente bellissimi.
“In quest’epoca torbida, gironzolava da uno all’altro dei cortili cosacchi un ignoto vagabondo che si faceva ingaggiare ora da questo ora da quell’altro padrone... Egli si faceva notare per l’insolenza dei suoi discorsi; ingiuriava le autorità, istigava i cosacchi a fuggire…”. Vantava patrimoni di centinaia di migliaia di rubli e ne prometteva milioni, intanto offrendo a ciascun seguace 12 rubli mensili. I notabili cosacchi puntarono su lui per farne l’impostore necessario alla rivolta. Portarono attorno quello sconosciuto, tarchiato e scarno, la barba nera che cominciava a incanutire, indosso un caffettano contadino di pelle di cammello, che dichiarava di essere l’imperatore Pietro III. Gli mancava un dente di sopra, perduto in un pugilato, era analfabeta e si faceva il segno della Croce come gli scismatici. Era temerario e spaccone, e sapeva prendersi gioco di se stesso. Cavalcava alla testa della sua armata, un vecchio cosacco lo esortò alla prudenza: ti possono uccidere con un colpo di cannone. “Si vede che sei vecchio, i cannoni vengono forse fusi contro gli zar?”. Attorno ai cosacchi di Jaìk si era riunita una marmaglia inverosimile di tatari, baschiri, calmucchi, contadini ribelli, galeotti evasi e vagabondi di ogni specie.
Villaggi e fortezze cadevano una dopo l’altra. In una la mina piazzata sotto il campanile lo fece crollare: “Le sei sentinelle che si trovavano al piano superiore precipitarono giù vive, e una, che in quel momento dormiva, scivolò giù non solo incolume, ma senza nemmeno svegliarsi”. Il sangue correva a fiumi. “Sopraggiunse il disgelo primaverile: i ghiacci si ruppero e i corpi degli uccisi portati dalla corrente passarono accanto alle fortezze. Le mogli e le madri stavano sulle rive sforzandosi di riconoscere i mariti e i figli”.
La ferocia dell’impostore era sfrenata. Gli fu portato un pastore riformato. “Pugacëv riconobbe in lui quegli che una volta, mentre lui attraversava incatenato le strade della città, gli aveva fatto l’elemosina. Il poveretto si aspettava ora la morte; Pugacëv lo accolse affabilmente e lo nominò colonnello”.
Quando, dopo aver messo a ferro e fuoco mezzo impero, fu finalmente sconfitto, tradito e catturato, si prestò grandiosamente al nuovo ruolo di reo confesso: “Dio ha voluto punire la Russia con la mia empietà”. Mentre lo portavano al patibolo, salutava inchinandosi profondamente da tutte e due le parti. Fu messo alla gogna e squartato.
Il romanzo, un racconto lungo prediletto da Gogol’ e da Dostoevskij, fa un uso duplice dell’agnizione, il colpo di scena cui la letteratura di tutti i tempi è debitrice. Il riconoscimento di qualcuna, qualcuno, che ti compare davanti in spoglie mentite o scadenti o mediocri, ed è Afrodite, o Giuseppe, o la principessa Sissi. Auerbach dedica il primo celebre capitolo di “Mimesis” (1942) alla “Cicatrice di Odisseo”, il mendicante vecchio e cencioso che torna e viene riconosciuto uno alla volta dal porcaro Eumeo, dal cane Argo – il più toccante – dalla nutrice Euriclea, dal figlio Telemaco, dalla moglie Penelope, dal vecchio padre Laerte – e, a loro spese, dalla marmaglia dei Proci.
Bene. Nella “Figlia del capitano” succede due volte – troppe, se non fosse Pushkin e la sua levità. Il giovane tenente Pëtr Grinëv, col servo Savel’ich, parte alla volta della sua destinazione militare. A Simbìrsk un superiore di mondo gli insegna a giocare a biliardo. “E’ indispensabile per noi altri militari. Durante una campagna arrivi in un paesetto; di che ti vuoi occupare? Non si può mica sempre picchiare gli ebrei”. Tenente e servo si perdono nella bufera di neve, compare un viandante male in arnese e li guida fuori dalla tempesta. E’ un contadino dall’aria e le sentenze furbe: una barba nera e due occhi sfavillanti. Sui quarant’anni, statura media, magro e di larghe spalle. Addosso un gabbano strappato e i braconi tartari. Insomma, lo conosciamo ormai. Al momento del commiato, Grinëv gli regala il suo nuovo pellicciotto di lepre, facendo disperare il servo Savel’ich. “Quel cane se lo beve alla prima bettola”.
Arrivano alla guarnigione, Grinëv va ad abitare dalla famiglia del capitano, si innamora della figlia, Mar’ja, viene ferito in duello da un rivale sleale, e un giorno i ribelli espugnano la fortezza. Alla loro testa c’è l’imperatore, una tunica rossa, guarnita di galloni, un berretto di zibellino con le nappine dorate, e i soliti occhi sfavillanti. “Quel viso mi parve di conoscerlo”. L’impostore impicca e squarta a destra e a manca, compreso il capitano e la moglie. Quando è la volta di Grinëv, Sua Signoria lo grazia. “Il pellicciotto da ragazzo regalato al vagabondo mi salvava dalla forca, e l’ubriacone che girovagava per le locande assediava le fortezze e scuoteva le fondamenta dello stato”.
E’ la prima agnizione, il vagabondo strafottente che volle farsi zar. Il tenente, che sente ormai una simpatia invincibile per quel mostro sanguinario che gli ha salvato la vita e poi ha liberato la sua amata, Mar’ja Ivanovna, dalle grinfie del rapitore, tuttavia non ha mai ceduto al proprio dovere di onore verso il servizio e la zarina. Ma le mene del rivale lo conducono davanti al tribunale militare con l’accusa di aver tradito e di esser passato agli ordini dell’impostore. Se ne difende, ma non vuole che il nome di lei sia coinvolto nello scandalo. Destinato al patibolo, viene graziato da Caterina: sarà deportato a vita in Siberia. Tocca ora a Mar’ja, che decide di partire per la Corte, a Càrskoe Selò. Vi pernotta e la mattina dopo esce a passeggiare in un giardino. “Ad un tratto un cagnolino bianco di razza inglese si mise ad abbaiare e le corse incontro. Mar’ja Ivanovna si spaurì e si fermò. In questo momento risuonò una piacevole voce femminile: ‘Non temete, non morde’. C’è una signora su una panchina, un vestito bianco da mattina, una cuffietta da notte e una mantelletta. Volto grasso e colorito, una grazia indicibile. “Sono la figlia del capitano Mironov”, le dice Mar’ja. La signora sembra commossa. Vado spesso a Corte, dice, ditemi a che cosa si riferisce la vostra supplica, forse potrò aiutarvi. Lei le consegna la lettera, la signora si rabbuia. “L’imperatrice non può perdonarlo! Lui si è unito all’impostore da immorale farabutto”. “Non è vero – grida Mar’ja – non si è difeso solo perché non voleva coinvolgermi”. La signora sta ad ascoltare, poi le raccomanda: non parlate a nessuno del nostro incontro, spero che non dobbiate aspettare troppo. Di lì a poco una carrozza di Corte viene a cercare Mar’ja, che venga subito dalla sovrana così come si trova. “Il pensiero di vedere l’imperatrice viso a viso la faceva vacillare dalla paura. Un minuto dopo la porta si aprì ed ella entrò nella stanza di toeletta della sovrana. L’imperatrice stava abbigliandosi. Si volse affabilmente e Mar’ja Ivanovna riconobbe la signora con la quale si era spiegata pochi minuti prima”.
Due spettacolari agnizioni in 140 paginette. Una è la zarina, l’altro un quasi zar. Manca una ventina di righe all’epilogo. Grinëv fu poi presente al supplizio di Pugacëv, il quale lo riconobbe nella folla e gli fece un cenno con la testa, che un minuto dopo, morta e insanguinata, fu mostrata al popolo.