piccola posta
Dall'Himalaya all'Amazzonia, fra le sentinelle di un pianeta in pericolo
“Earth Protectors”, documentario di Anne de Carbuccia, spaventa e affascina. Racconta l'antropocene, il tempo in cui gli umani decidono del destino di tutte le specie. Ogni volta che un antico contadino dice “una pioggia così non s’è mai vista!”, quello è uno di noi
C’è un lungometraggio di Anne de Carbuccia, 96 minuti, “Earth Protectors”, custodi della Terra. Io l’ho guardato su Prime video – con un noleggio strampalato di 1,90 euro: lo regalino piuttosto, per un calcolo di costi immediati e ricavi differiti. Le immagini sono magnifiche, ma questo ormai succede. Sono prove a carico. La parte che mi ha spaventato è girata nell’Himalaya, e mostra l’abbandono di antichi villaggi da parte dei loro abitanti. I duemila ghiacciai della catena, quelli dai quali scendono i grandi fiumi dell’Asia, che dissetano più di un miliardo e mezzo di umani, retrocedono rapidamente, lasciando a secco comunità la cui quota nel consumo globale di energia è pressoché nulla: lo sterco delle mucche che bruciano per riscaldarsi. Sotto i nostri occhi queste persone e gli altri animali fanno i bagagli e si incamminano giù dai loro sentieri erti. Ora siamo rifugiati climatici, hanno imparato a dire. Non sanno credere che altrove nel mondo, specialmente nel mondo che l’energia la dilapida, ci sia chi non ci crede. Come se fosse un’opzione, crederci o no. Se non ci credi, muori di fame e di sete.
L’autrice del film è nata in Corsica – come Napoleone, Pasquale Paoli, e soprattutto la Colomba di Mérimée – è una donna d’acqua, è diventata apneista alla scuola di Cousteau, poi alpinista e selvatica non so come. Attraversa il mondo per conoscere e fotografare i luoghi più belli dunque più minacciati. Li fotografa insieme a segni del suo passaggio, come quelli delle nature morte – vite silenziose: una clessidra, un teschio, radici, scarti di giada e pangolini assonnati, coralli, una ghirlanda… Scrigni del tempo, li chiama. L’ho vista una volta, bella, giovane – non avevo con lei niente in comune. Tranne una cosa: l’antropocene. Lei ci crede, crede che viviamo un tempo in cui gli umani decidono del destino di tutte le specie. Be’, anch’io, da un bel po’. E mi rivolgo ora ai vecchi come me, o più, o quasi. Su di me i cambiamenti si sono inscritti come altrettante rughe, mutilazioni, cicatrici. Non diffido della scienza, al contrario: sono io stesso un diagramma del mutamento climatico. Ogni vecchio lo è, basta che si passi la mano addosso, basta che socchiuda gli occhi e si faccia frugare dall’aria – annusi e perquisisca l’aria. Vecchi, amiche e amici! Noi siamo come quelle statuine kitsch che diventano blu quando è asciutto – fa bello! – e diventano rosa quando è umido. Segnati dal tempo, siamo noi dei segnatempo. Fidiamo in quello che vediamo e sentiamo, quello che ricordiamo. Ogni volta che un antico contadino di Faenza dice a un telegiornale, “una pioggia così non s’è mai vista, a memoria d’uomo!”, quello è uno di noi. Noi, la memoria d’uomo.
Le inondazioni della Romagna forse non sono direttamente connesse con la crisi del clima. Può darsi. Sono connesse con la crisi dell’uomo. Abbiamo appena assistito a un’esemplificazione tremenda dell’idea dell’antropocene – non è un’idea vanitosa, è un’idea disperata – che non avevamo saputo immaginare, perché, almeno nei nostri climi già civilmente e meteorologicamente temperati, ci eravamo disabituati alle guerre: l’inondazione della steppa dalla diga di Kakhovka in giù, la foce del Dnipro, gli orti e le sabbie di Kherson, la piana e il Mar Nero fino a Odessa, e i raccolti spacciati, i veleni, il colera. Ci eravamo fatti uno scenario tragico delle nostre responsabilità divise in due: la guerra e la sua distruzione (la guerra è il più coerente negazionismo del mutamento climatico, non a caso è la passione del benzinaio del Cremlino) per un verso, la consumazione pacifica delle risorse, fino all’aria che respiriamo, per il verso opposto. Basta minare la diga sul grande fiume, e i due versi, guerra e pace, si fondono. Il prossimo esperimento è già piazzato sulle terrazze della centrale nucleare di Energodar, e già il tanto parlarne vale una nuvola radioattiva.
Anne de Carbuccia si muove agilmente nei luoghi più impervii, dev’essere così che riesce ad arrivare a tu per tu con una tigre dai denti a sciabola e ritrarla. E’ una creatura armoniosa – anche la tigre. C’è una sua mostra nel Cortile del Rettorato, a Torino, fino al 30 agosto. Il film è un suo bilancio più o meno decennale. Mostra luoghi del pianeta in cui giovani donne e uomini si adoperano creativamente, solidarmente, e spesso, per necessità, audacemente, a salvare il proprio ambiente o almeno a curarne la malattia (sul magnifico Bajkal, per esempio, la più grande riserva d’acqua dolce. Tra gli Shipibo dell’Amazzonia peruviana. Grazie ai quattro fratellini della foresta colombiana abbiamo riscoperto che cos’è una sapienza indigena).
Lo Manthang, Upper Mustang, dunque. Un regno isolato nel nord dell’Himalaya. “Giocavamo nei fiumi e andavamo a cavallo. Il primo visitatore arrivò nel 1992. Ci ha lasciato le sue Polaroid”. Dzendong, Samdzong, villaggi disertati, lasciandosi indietro le maschere degli dei protettori, i mantra scolpiti, le ruote della preghiera. Popolazioni sentinelle, sul fronte. Strana guerra, cominciata sguarnendo il fronte, smobilitando le sentinelle.