Piccola Posta
Lo struggente amore padre-figlia, antidoto alla precarietà fra guerra e pace
Una rilettura di “Disordine e dolore precoce”, novella lunga di Thomas Mann pubblicata in Germania nel 1925
Prima della “Montagna incantata” avevo amato soprattutto il “Tonio Kröger” e, ancora di più, “Disordine e dolore precoce”. E siccome mi piace più rileggere che leggere (arterie ottuse, certo) l’ho riletto, ma con una buona ragione. Per la bellissima Edizione Henry Beyle ne è uscita l’anno scorso una nuova traduzione curata e annotata da Renata Colorni. Non si annuncia con un colpo di cannone fin dal titolo, come nel caso, suo e di Luca Crescenzi, della “Montagna magica”; ma sì dal nome della protagonista di cinque anni, Eleonore, Lorchen, che nella traduzione di Lavinia Mazzucchetti (a sua volta precoce, pronta nel 1925, l’anno dell’originale, e uscita due anni dopo) si chiamava Nora, Norina.
La dico protagonista (è la figlia prediletta dell’autore, Elisabeth), senza far torto a suo padre, lo storico Cornelius, il “vegliardo” nel linguaggio moderno dei due figli “grandi”, 18 anni lei e 17 lui: il professore ha 47 anni, più o meno l’età dello scrittore di cui è un trasparente alter ego, e 39 sua moglie, la “vegliarda”. La “novella di inflazione e di rivoluzione” è ambientata nella Germania del 1923, dove le uova sono razionate a cinque per settimana e una birra leggera costa ottomila marchi, e la terra sotto i piedi è malcerta e il caos regna sovrano. Cornelius è affezionato a Filippo II e al suo tempo, e in generale al passato, avvenuto e dunque liberato dall’oltraggio del tempo. Il presente è sempre disordine, tanto più in quella Repubblica di Weimar su cui incombe il precipizio, annunciato da tutti i segni. Dal domestico Xavier, figlio della sua epoca, che è quella del tempo perso, un intraprendente e simpatico bolscevico – bolscevico non è un attributo politico, è il semplice nome di un giovane al passo coi tempi – cui il figlio “grande”, Bert, aspirante a fare il cameriere preferibilmente al Cairo, tende a somigliare, nell’abbigliamento e nei modi.
“Una sorta di vicendevole assimilazione tipologica”: ambedue portano i capelli lunghi, li scuotono con gli stessi gesti, fumano le stesse, troppe, sigarette, e in fondo hanno gli stessi pensieri – o, che è lo stesso, sono privi allo stesso modo di pensieri. Quando escono, a capo scoperto, il professore alla finestra non riesce a distinguere il figlio dal domestico (c’è un anticipo di Pasolini, che vedrà piuttosto il disordine dell’assimilazione inversa, del servo integro affamato e ignorante al figlio del padrone vacuo e capellone. Anche Pasolini sfornerà suoi sermoni conservatori come “novelle di inflazione e rivoluzione”).
Cornelius sa che i professori di storia non amano gli eventi storici in quanto accadono, ma in quanto sono accaduti; e detestano i sommovimenti della contemporaneità. E’ stato “il suo istinto di conservazione, il suo senso per l’eterno, ad averlo sottratto alle insolenze del tempo attuale e a indurlo a rifugiarsi nell’amore per questa piccina... Lui capisce che c’è qualcosa in questo suo amore che non è del tutto né buono né giusto… E’ un amore che per la sua origine ha in sé una certa ostilità, una opposizione contro eventi futuri in favore di eventi passati, ovvero della morte”.
La rivelazione della beniamina Lorchen a Cornelius si compie nel pomeriggio di una festa di giovani convocata a casa sua dai figli “grandi”. Tutti quanti si danno del tu e hanno un modo di comportarsi, gli uni con gli altri, che agli anziani risulta incomprensibile. C’è il giovane e celebrato attore della nuova scuola, idolo dei figli “grandi”, “che con urla da far pietà si esibisce sulla scena in pose strampalate da ballerino che il professore giudica quanto mai artefatte”. Amano, i figli “grandi”, quando viaggiano in tram, dare di sé una rappresentazione sfacciata, “fino a quando un anziano signore, seduto davanti, il quale ha ripiegato il suo biglietto nell’anello con sigillo che porta al dito indice, eleva una vibrata protesta”, e alla fermata successiva scende precipitosamente dal tram (prendi nota di tutto, Alain). Il ritratto del professore, l’autoritratto riservato e ironicamente indulgente di Mann e insieme dell’epoca, cambia meravigliosamente di tono nella cronaca incalzante della bambina che di colpo, invitata scherzosamente a ballare dall’elegante e disinvolto giovanotto che vuol fare bella mostra di sé coi vegliardi ospiti, se ne innamora perdutamente e poi, portata a letto col fratellino, singhiozza senza conforto e vuole che il suo cavaliere, passato distrattamente a una dama di formato, diventi suo, un altro suo fratello. Per la prima volta il mondo è mancato sotto i piedini di Lorchen, e il suo pianto per la prima volta inconsolabile dal padre, e consolato dal cavaliere richiamato al suo capezzale, ha segnato un passaggio di confine, al dolore non più infantile troppo presto sentito, dal disordine che l’ha suscitato.
Cornelius sta impotente di fronte alla bufera di singhiozzi disperati che scuotono Lorchen, e poi la vede trasfigurata dalle lusinghe del suo improvviso e usurpato Cavaliere del Cigno, non può impedirsi di ripensare alla storia sentita del clown dal costume trapuntato chiamato al capezzale di un bambino giunto all’ultima ora, che muore in uno stato di beatitudine. Ma Lorchen ora si addormenta, e non è destinata a morire, e domani tutto ciò non sarà che una pallida ombra, e padre e figlioletta ricominceranno i loro giochi, e ne sia ringraziato il cielo! Anche il dolore precoce, il melodramma della passione per il fatuo ballerino, dovrebbe essere un segno dei tempi, e forse non lo è. Forse l’inflazione è un pretesto, la rivoluzione è una metafora. Del resto, la rottura del rapporto “eterno” fra padre e figlia è inevitabile. I bambini e le bambine sono destinati a diventare uomini e donne. Quello struggente amore paterno ha una punta di macabro. La morte della bambina potrebbe renderlo eterno, certo, al riparo dalla precarietà del presente e del futuro che nel presente si annuncia. Dico così non perché voglia sottrarre il racconto all’esemplarità del contesto sociale in cui si svolge. Ma mi viene voglia di segnalare la ripetizione di quei sentimenti. L’inflazione di oggi ha cifre irrisorie rispetto al Dopoguerra di Weimar. In quel Dopoguerra rumoreggiava già una guerra a venire. Noi, qui e oggi, non sapremmo bene come chiamare il nostro tempo fra guerra e pace. Forse un padre di 47 anni non sarebbe a misura nei panni del turbato professor Cornelius: meglio un nonno, uno storico emerito che non abbia da preparare la lezione della mattina dopo su Filippo e l’Escuriale, sorpreso e sbigottito dal pianto irrefrenabile di una bambina di 5 anni che un giovanotto ha corteggiato in una stanza da ballo alle strane musiche dell’ultimo grido.
Per prendere miglior nota, ieri, dialogando con un amico, mi è tornato in mente il reportage di Pasolini dal Cinquale, nel giugno 1959. “Un mare di memorie… Qui ci fu D’Annunzio. Qui tra il ’20 e il ’30 Huxley scrisse “Foglie secche”, e Thomas Mann – che faceva fare il bagno nudi ai figlioletti scandalizzando gli italiani – scrisse, indignato, “Mario e il Mago”. Da queste parti veniva anche Rilke, a pensare chissà quali dei suoi sonetti. E ci venne al confino Malaparte. Vi ha vissuto la sua lunga vita Pea. Vi ha dipinto Carrà. E, ripeto, ci vengono ancora i letterati, specie fiorentini: Longhi, Anna Banti, De Robertis, con quel suo occhio ridente con dentro sempre una lacrima, quella sua testa da uccelletto, reduce dall’aver mangiato qualcuna delle sue zuppette di cui solo si nutre, e con un grande amore dentro per la poesia, un amore unico.
“Ora cammino per la spiaggia del Cinquale, fra tutte queste memorie contro quel po’ po’ di sfondo dei monti della Versilia; e sapete che vedo? Una banda di giovinastri emiliani distesi a pancia in giù a guardare una tedesca, tutti un po’ grassi e spennacchiati, con uno che fa l’epilettico per buffoneria. Una compagnia di tedeschi poveri: due giovanotti e due ragazze, biondi come pannocchie. Una famiglia proletaria che ha appena finito di mangiare accanto a una tenda da beduini, ridotta a spazzacucina, con un giovanotto che va a lavare i piatti in mare. Due biciclette scassate appoggiate una all’altra, come due ubriache. Una lambretta con sopra un paio di scarpe di camoscio verdolino e rosicchiato e i pedalini”.