Piccola Posta
La sepoltura di Prigozhin moltiplica il peso sulla memoria di Brodskij
Accanto alla fotografia del sepolto e a una profusione di rose rosse, figurano i versi di una celebre opera del poeta: “Natura morta”. Parole temerariw al punto da suggerire quasi una vicinanza fra il capo della Wagner e Gesù. Del resto, in quale altro luogo si fa un tal abuso di Cristo come nei cimiteri?
Povero Brodskij, povero Pavese. Poveri tutti. Le cronache hanno segnalato che sulla tomba di Evgenij Prigozhin – a ieri visitabile, hanno stabilito le autorità – accanto alla fotografia del sepolto e a una profusione di rose rosse, figurano i versi di una celebre poesia di Iosif Brodskij, “Natura morta”. E’ del 1971, un anno prima dell’esilio. In rete la trovate recitata da lui, vale la pena, anche senza sapere il russo. E’ numerata in dieci strofe, ciascuna di quattro quartine. La parte scelta a San Pietroburgo, nel cimitero depistato di Porokhovskoye, dev’essere, se non sbaglio, l’ultima, e più famosa, temeraria fino a suggerire una vicinanza fra il capobanda della Wagner e Gesù Cristo.
La madre chiede al Cristo:
- Tu sei mio figlio
o Dio? Tu inchiodato alla croce.
Come ritornare a casa?
Come attraversare la soglia,
senza aver saputo né stabilito:
se sei mio figlio o Dio?
Ossia morente o vivo?
Le risponde:
- Morente o vivo,
non fa differenza, donna.
Figlio o Dio, sono tuo.
Il fatto è che non esiste un regolamento cimeteriale, o un più banale copyright, che prescriva quali categorie o individui vadano esclusi dall’accesso alla poesia universale – per fortuna. Non esiste un 41 tris delle clausure postume. Del resto, in quale altro luogo si fa un tal abuso di Gesù Cristo come nei cimiteri? Una tale amnistia? Nel nostro caso, è implicato anche Cesare Pavese (proprio mentre se ne pubblica qualche nuovo inedito in limine mortis). Per quella famosa poesia Brodskij ha citato in esergo “Verrà la morte e avrà i tuoi occhi”, e l’ha ripetuto chiudendo la penultima strofa. Come ricorda Olga Trukhanova, sull’Italia come “ispirazione e rifugio spirituale” del poeta russo-americano, e finalmente veneziano, il Brodskij “tra i primi anni 60 e i primi anni 70 si dedicava alla traduzione dei grandi del novecento italiano, di Saba, Quasimodo, Bassani, Govoni, Fortini, De Libero…”.
La circostanza ha un altro risvolto increscioso. Raccontai qui, dall’Ucraina, la vicissitudine incresciosa di una poesia di Brodskij composta nel 1991, o poco dopo, e intitolata “Sull’indipendenza dell’Ucraina”. “Una provocazione”, la chiamò, e la tenne per sé, salva una lettura a Palo Alto nel 1992, di fronte a un vasto uditorio nella Comunità ebraica, ripetuta poi a New York, al Queen’s College, nel 1994. Brodskij non volle mai pubblicarla, “e il testo fu ritenuto da molti apocrifo, soprattutto per la virulenza compiaciuta del tono e del lessico – ‘sputare nel Dnipro’… – finché qualcuno pubblicò il video con la registrazione. Da allora, torrenti di inchiostro si sono versati, sul tema della condivisione di un imperialismo russo culturale e soprattutto linguistico da parte di Brodskij: un paradosso, per un ebreo, incarcerato dal regime sovietico come parassita sociale, esiliato e diventato scrittore e poeta in un’altra lingua, l’inglese… Era stato un incidente, o la rivelazione di un legame orgoglioso, se non certo col potere, con un mondo letterario e linguistico tragicamente minacciato di perdersi con il collasso dell’Urss? Si può immaginare quanto la provocazione ferisse il nazionalismo ucraino: ‘Riposate in pace, cosacchi, atamani e guardie dei gulag! / Ma ricordate: quando sarà il vostro turno / rantolerete e sussurrerete, graffiando il materasso del letto di morte, / non i rumoracci di Taras, ma i versi poetici di Alexander’. Taras è Schevchenko, il poeta ‘padre della lingua ucraina’; Alexander è Pushkin, ‘padre della lingua russa’”.
Il suo amico e collega di Nobel, il lituano Tomas Venclova, disse: “Lo amavo molto e lo amo, ma scrisse versi anti ucraini, poco intelligenti e molto offensivi. Gli ho consigliato di non stamparli e di non leggerli in nessun caso in pubblico. E se li avesse letti, avrebbe dovuto farlo a Kyiv, a tu per tu con gli ucraini, anche a rischio che gli tirassero pomodori e forse sassate... Brodskij non ha pubblicato questi versi, ma li ha recitati in pubblico, in America o in Canada, cioè alle spalle degli ucraini, e questo non è bello. E la poesia è diventata famosa. Ora viene usata dal potere e dai propagandisti di Putin. E’ molto grave. Adam Michnik ha detto: ‘Non so chi vincerà la guerra ucraina, ma so sicuramente chi l’ha persa: Iosif Brodskij. Ha rovinato la sua reputazione per molti decenni, forse secoli’”.
Concludevo allora: “Mi pare che si possa dire che Brodskij si sia adoperato a dimostrare che la lingua russa e il popolo russo, il suo ‘carattere nazionale’, sono mutuamente indispensabili, e dunque che il russo non è di chi lo parla, ucraini compresi, ma dei russi. Solo che questa è diventata la distinzione essenziale. Una posta della guerra, e non minore”. Papa Francesco ha appena sperimentato un incidente del genere. E la sepoltura di Prigozhin ha ora moltiplicato a dismisura il peso sulla memoria di Brodskij, nel rifugio leggero dell’Isola di San Michele.