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Lotta di classe e mal di denti. Marchesini racconta Sebastiano Timpanaro
Il critico ha dedicato la sua rubrica su Radio Radicale all'egregio filologo classico, eminente leopardista, militante socialista engelsiano. Una riflessione sulla distinzione fra l’essere storico-sociale e l’essere naturale dell’uomo
Sebastiano Timpanaro. Giovedì Guelfo Guelfi, Antonio Sofi e soci presentavano un loro diario della campagna elettorale di 13 anni fa, “La bolla di sapone” (Lupetti), per dedurne come la nozione stessa di campagna elettorale sia esaurita, oppure come lo sia la politica, ingoiata dalla campagna elettorale permanente. Fuori programma, Michele Feo, filologo petrarchista meridionalista, ricorda che Sebastiano Timpanaro e il suo illustre padre, con le loro vite integre e la loro gran preparazione socialista – marxiana e galileiana, engelsiana e leopardista – registravano con orgoglio che la loro rispettiva madre e moglie, Maria, grecista, storica della scienza, assai meno versata nella conoscenza dottrinaria ma dedita alla ordinaria attività socialista, e alla straordinaria impresa per le scuole materne laiche, venisse amata dalla “base” incomparabilmente più di loro. La mattina dopo, Matteo Marchesini ha dedicato a Timpanaro la sua rubrica su Radio Radicale, “Critica e militanti”, e ne raccomando l’ascolto, oltre che per la limpida efficacia, per la simpatia che corre fra il critico e la personalità che racconta. Com’è noto, Timpanaro (1923-2000) è stato un egregio filologo classico, un eminente leopardista, un militante socialista engelsiano, quanto alla parte della storia naturale in quella degli umani, e leopardiano, quanto al materialismo, al pessimismo e al coraggio civile. Marchesini ha giustamente insistito sull’incursione di Timpanaro nella psicanalisi, “Il lapsus freudiano” (1974) e sulla rimozione con cui è stata accolta dagli specialisti – un po’ meno nei paesi anglosassoni. Le confutazioni di Timpanaro di casi celebri freudiani sono smaglianti (com’era stato il suo smascheramento di alcuni abbozzi falsificati dell’Infinito di Leopardi). Marchesini spiega come la sapienza del filologo classico serva a dimostrare, e a banalizzare felicemente, certe sovrainterpretazioni. Cita l’esempio di Timpanaro che trova, leggendo un testo, un “ani” al posto di “anni”, e si chiede che cosa una lettura freudiana saprebbe tirarne fuori quanto a un’omosessualità latente eccetera. Solo che poco dopo nello stesso testo si trova un “leterari” invece che letterari, il che è forse indizio che il tipografo sia veneto, o che la distrazione del primo errore abbia meccanicamente trascinato il secondo... Vorrei ripetere l’impressione eccezionale che mi fece il mestiere di Timpanaro – campava di quello – come “correttore di bozze” alla Nuova Italia. (Che ha suggerito a un critico come George Steiner un romanzo meschino come “Il correttore”). E’ leggendaria la ritrosia di Timpanaro a parlare in pubblico, cui si attribuisce la rinuncia alla carriera universitaria che gli era spalancata davanti: penso che vi avesse altrettanto posto un suo rifiuto morale dell’accademia e di qualunque condizione personale che gli sembrasse comportare un privilegio. Questa “debolezza” ha prodotto l’eccezionale combinazione fra la padronanza del metodo filologico, di cui era maestro, e l’esperienza del correttore di bozze, e dell’affinità fra il modo in cui avvengono gli “errori del proto” e quelli dei copisti. (Quanto al lamentevole presente, oh gran bontà de’ correttori antiqui). Così una timidezza o un moralismo personali diventano un vantaggio scientifico.
Marchesini ha concluso con un passo di una lettera di Timpanaro a Grazia Cherchi, 1970: “Il dente finalmente estratto non mi dà più noia, e quindi sono disposto di nuovo a riconoscere che il male principale è la divisione della società in classi, e non il mal di denti”. Spiritoso ma serio: fragilità, malattia, morte, così del corpo individuale come del corpo sociale sono un limite insuperabile all’operato umano. Questo leopardismo fomentò la sensibilità di Timpanaro all’ecologia, non fino al punto di far proprio quell’accorciamento della distanza immemorabile fra i tempi della storia umana e i tempi della storia naturale (“Sta natura ognor verde, anzi procede. Per sì lungo cammino, Che sembra star”) che è al centro della questione del clima. Nella nostra discussione, che si ritrova nella raccolta di suoi “Scritti militanti 1966-2000. Il verde e il rosso”, Timpanaro mi addebitò un ecumenismo da diserzione, o almeno da ridimensionamento indebito, della lotta di classe, rispetto al primato della lotta comune per la salvezza del pianeta – “tutti fra sé confederati estima...”. E’ probabile che ci fosse in me un eccesso di zelo universalista, a compenso dell’unilateralità da cui venivo, ma credo che ci fosse in lui anche qui una renitenza moralista a sguarnire la posizione di classe: “la battaglia ecologica è, in Occidente, un aspetto della più generale battaglia anticapitalistica e antimperialistica...”. E’ vero, ma di fronte al rischio di quel cedimento anche la tenace e geniale battaglia di Timpanaro sulla distinzione fra l’essere storico-sociale e l’essere naturale dell’uomo, fra l’infelicità superabile politicamente dello sfruttamento e l’insuperabile infelicità dell’animalità, la biologicità umana – fra Marx e Leopardi – segnava il passo, temendo di mettere il piede in un nuovo idealismo interclassista. Bella discussione, appena incominciata, e già finita.