piccola posta
Zelensky, il dittatore a tempo determinato di cui Kyiv ha bisogno
È la finitezza temporale del potere a distinguere l’autocrazia dalla democrazia, sulla quale incombe la scadenza delle elezioni. Vale anche per la “corrotta” Ucraina
Ci sono giorni, oggi per esempio, in cui occorre pensare senza pigrizia al punto cui è arrivata la guerra. Il tempo è un fattore decisivo, non una circostanza accessoria. C’è un’alleanza delle democrazie: qualunque difetto vi si denunci, dato che le democrazie sono difettose per definizione e importa solo che non lo siano troppo, c’è questa alleanza. Fra le sue differenze dalle autocrazie e dal loro impulso a unirsi in una Internazionale autocratica, c’è il tempo. Un regime autocratico, che accolga o no una parodia di elezioni, ha il tempo lungo quanto la longevità del suo titolare, protratta in quella dei suoi successori. Su una democrazia incombe permanentemente la scadenza delle elezioni, i cui quattro o cinque anni, o ancora meno quando si anticipino, sono straordinariamente brevi se commisurati a una guerra che tende a cronicizzarsi e, nel nostro caso, si avvicina a compiere i due anni. L’attualità rende spettacolosamente evidente questa condizione. La Polonia va a votare per il Parlamento il 15 ottobre, e il risultato è, per fortuna, incerto: questo ha fatto sì che il primo ministro, che aveva tenuto il paese fino a qualche tempo fa sulla primissima linea del sostegno militare e civile (l’accoglienza ai profughi eccetera) all’Ucraina, sia arrivato a un voltafaccia totale come l’interruzione della fornitura di armi, motivandola in modo irridente: dobbiamo occuparci di ammodernare la nostra difesa.
Naturalmente, tutti sanno che il maggior serbatoio elettorale del PiS, il partito Diritto e Giustizia, destra nazionalista e bigotta – e dei suoi rivali, compresa l’estrema destra di Konfederacja, è costituito dalla popolazione rurale, e che la posta è la ripugnante guerra del grano che la Russia ha sferrato all’Ucraina. La quale ha reagito alla difesa corporativa dei contadini polacchi da parte del loro governo accusandolo di tradimento, quello che fino a poco fa era stato il loro più incondizionato alleato, minacciando di denunciarlo al Wto, e insinuando accuse paradossali di intelligenza con la Russia. La stessa cosa, appena variata, sta succedendo in Slovacchia, dove l’elezione è alla fine del mese, e il ritorno dell’ex presidente Fico, cacciato a furor di popolo nel 2018 come un criminale comune, segnerebbe un ritiro della solidarietà con l’Ucraina. Dunque gli appuntamenti elettorali stanno già cancellando uno degli effetti più rilevanti dell’invasione dell’Ucraina, cioè la rottura della cosiddetta alleanza di Visegrád, e in particolare l’incompatibilità fra il sentimento antirusso polacco e la complicità screanzata di Orbán con la Russia.
Naturalmente, la scadenza elettorale che più grevemente incombe sulla resistenza ucraina è quella presidenziale del novembre 2024 negli Stati Uniti, poco più di un anno. La guerra protratta fino a quella data e oltre sarebbe appesa al suo esito come a un filo, considerate la sfida fra i concorrenti e la loro personale precarietà. Quanto agli alleati della Ue, sguazzano già nelle loro campagne elettorali per il Parlamento europeo, e ne tengono un gran conto, come dimostra l’infiammazione del tema dei migranti. Pesantissimo nella stessa Polonia, dove il PiS ha fatto coincidere con le elezioni un referendum impudente: volete l’invasione di clandestini dal medio oriente e dall’Africa, più o meno. E il muro con la Bielorussia? (E intanto lo scandalo della concessione di visti di ingresso a caro prezzo da parte dei consolati a persone dell’altro mondo, che se ne sarebbero servite per attraversare tranquillamente le frontiere di Schengen, sta segnalando il governo polacco xenofobo come una delle maggiori agenzie terracquee di tratta dei migranti extraeuropei).
Il sostegno “occidentale”, aggettivo che non è geografico, è stato ed è la condizione decisiva per l’Ucraina, tranne che nel primo momento della resistenza all’invasione, inaspettata dagli alleati (e da Putin) e merito stupefacente di Zelensky e dei suoi. Ma la lunga durata della guerra, che ne ha mutato modi e natura, ha anche suscitato una nuova e anch’essa imprevista (e ancora ignorata) differenza, oltre a quella principale fra i tempi delle autocrazie e quelli delle democrazie. La differenza cioè fra gli alleati “democratici”, esposti, in un calendario variabile ma comune a tutti, alle verifiche e alle svolte elettorali, e un governo di Zelensky che era stato a suo tempo democraticamente eletto con un’amplissima maggioranza (oltre il 70 per cento), aveva poi avuto il tempo di perdere una buona parte dei consensi, e con l’aggressione aveva di fatto mutato di colpo la propria natura. Quel mutamento non ha fatto che accentuarsi nel tempo lungo della guerra, e le elezioni, che pure anche in Ucraina sono in agenda e potrebbero perfino essere tentate nella condizione materialmente impervia della guerra, hanno per così dire sospeso la loro funzione. Non solo, ma lo stato d’eccezione della guerra, e di una guerra che i russi rendono così criminalmente totale, ha motivato o giustificato o consentito – si può discuterne caso per caso – anche una sospensione della ordinaria vita pubblica e della stessa dialettica dei partiti; e ha imposto, nel fuoco del conflitto armato, correzioni nell’apparato dello stato e delle istituzioni, come quelle via via più clamorose dettate dall’esigenza di placare lo scandalo dei cittadini e di esaudire la richiesta internazionale di arginare la corruzione. Tutto ciò ha via via decimato e rastremato la classe dirigente civile e militare e tenuto ferma pressoché soltanto l’autorità di Zelensky. Che non poteva non essere toccata dai costi di una durata così lunga, strenua e crudele. (L’altro giorno Brera, su Repubblica, citava il sondaggio recente di una “Fondazione per le iniziative democratiche” secondo cui il 78 per cento degli ucraini consultati ritiene Zelensky “corresponsabile della corruzione nel governo e nelle amministrazioni militari”: non c’è certo da stupirsene).
Ora, le figure che le peripezie della storia e i manuali di psicosociologia promuovono a leader carismatici, hanno due caratteristiche per essere benedette: di godere, in una situazione eccezionale, di un eccezionale prestigio, autorità e perfino “indispensabilità”. E, a complemento, di prevedere un tempo e un modo di liberarsi, ed essere liberate, dell’autorità, del prestigio e soprattutto dei ceppi della propria indispensabilità. Zelensky non è il presidente di una democrazia normale, come lui e la gran maggioranza del suo popolo hanno dimostrato di aspirare a essere. E’ un dittatore. Senza un simile ruolo, le repubbliche con difficoltà usciranno dagli accidenti straordinari. Perché i ruoli consueti nelle repubbliche hanno il moto tardo e dunque i loro rimedi sono pericolosissimi, quando devono rimediare a una cosa che non aspetti tempo. Questi due ultimi periodi non sono miei, se non per l’ammodernamento lessicale, ma di Niccolò Machiavelli. Che nei “Discorsi” spiega come la dittatura fece bene, e non male, alla Repubblica romana. La sua spiegazione si attaglia perfettamente alla situazione di Zelensky e della Repubblica ucraina, purché se ne ricordi l’altra metà: che il Dittatore “era fatto a tempo, e non in perpetuo, e per ovviare solamente a quella cagione mediante la quale era creato”. Ciò che è implicito nella condizione di Zelensky – che è oltretutto insidiato da un rischio personale che non è mai cessato. Ma renderlo esplicito servirebbe a offrire ai cittadini ucraini un orizzonte diverso da quello solo militare, e renderebbe meno profondo il solco che separa l’Ucraina attuale, e le parole oltranziste e uguali a se stesse dietro cui è trincerata, dai linguaggi dei paesi democratici ed elettivi che, fermamente o tentennanti, l’appoggiano.