Piccola Posta
La prossima generazione ci metterà alla prova sulla guerra all'Ucraina
La posizione "giusta" non è presa una volta per tutte, ai posteri succederà infatti quello che è successo a noi e a quelli prima di noi: sapere e capire in ritardo i propri errori
Non so se “sbagliando s’impara”. Ovvero, lo so, ma a condizione di cambiare quell’indicativo, s’impara, in una espressione più cauta: sbagliando, può darsi che si impari. Oggi ho spesso l’impressione che la sentenza venga invocata per autorizzarsi a sbagliare e risbagliare rinviando sine die il momento di imparare. Penso che una svolta decisiva, la più importante “politicamente” – poi ci sono svolte umanamente più importanti, perché non è così vero che il personale sia politico – avvenga nella stagione in cui ci si accorge di aver sbagliato di grosso, quasi mai in mala fede, piuttosto per entusiasmo, o per ignoranza, e di essere stati ingiusti col passato e col presente. Di aver equivocato bene e male, di aver ignorato sofferenze e umiliazioni di deboli, di essere stati indulgenti per partito preso coi forti. Gli esempi sono così numerosi ed enormi che è superfluo farli, e ogni generazione ha i suoi.
Quando succede, se in fondo si è seri, se si prende sul serio se stessi e il mondo, ci si promette di fare molta attenzione. Di far tesoro, appunto, delle lezioni del passato. Di prendere posizione ogni volta che bisogna – non riesco infatti a figurarmi una vita che non prenda posizione – immaginando il modo in cui i posteri, non quelli remoti, ma quelli vicini, che sapranno un po’ di cose in più, e che si procureranno un punto di vista che a noi ancora sfugge, ci riconosceranno. Ai posteri succederà infatti quello che è successo a noi, di sapere e capire in ritardo che cos’era stato della libertà e della dignità nell’Unione sovietica, che cosa avevamo fatto in Etiopia, che cos’era la Grande rivoluzione culturale, che cosa era successo il 16 ottobre del 1943 al ghetto di Roma, che cosa c’era sotto il nostro normale rapporto di uomini con le donne, che cosa c’era sotto il nostro rapporto di bianchi con i non bianchi, sotto il nostro rapporto di normali coi diversi, che cosa stava succedendo alla frontiera fra il Bangladesh e la Birmania, che cos’era successo in Cambogia, che involuzione psicopatologica stava attraversando l’America profonda, a che ritmo spaventoso stesse riducendosi la popolazione di mammiferi, volatili, pesci e rettili… Di accorgersi di essere stati, per pregiudizio o per distrazione, dalla parte degli oppressori o indifferenti agli oppressi. Di aver lodato, come la infelice generazione comunista appena precedente la mia, l’infamia di Budapest. Di non aver tenuto l’orecchio a terra. Aver cura della propria reputazione postera – che è in realtà la propria reputazione presente.
Il fatto è che la posizione “giusta” non è presa una volta per tutte. Siamo messi alla prova tante volte, e nel modo più imprevisto. Come il primo giorno in cui ci siamo chiesti, ci è stato chiesto, delle persone che si avventuravano sul Mediterraneo per venire di qua. Una di queste prove, la più inaspettata, perché siamo bravi ad anestetizzarci, è stata la guerra della Russia all’Ucraina. Dal primo giorno, ho pensato che la prossima generazione ci avrebbe misurati su quella, come noi misurammo i nostri padri sulla Seconda guerra. Che ci saremmo giocati tutto – la faccia, si dice oggi, ma la faccia è l’ultima cosa. Lo penso ancora. Anzi, lo penso ancora di più.