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Per Israele il dilemma è fra la liberazione dei prigionieri e la punizione di Hamas

Adriano Sofri

Nella parola “priorità” ripetuta a proposito degli ostaggi c’è un’illusione. Per uno solo com'è già successo con Gilad Shalit, si può pazientare anni, si può pagare carissimo. Per 130, 150, centinaia, è infinitamente più difficile

Cronache dell’infamia. Sepolta nei resoconti di ieri c’era la notizia su un “leader di Hamas”, Saleh al Arouri, che aveva rilasciato una dichiarazione ad al Jazeera. Diceva che gli scempii e le efferatezze sui corpi degli israeliani civili indifesi, bambini, ragazze, donne e vecchi, non erano state l’opera dei militanti di Hamas, i quali al contrario si erano dedicati esclusivamente ai militari nemici, bensì dei cittadini “normali” di Gaza, corsi irresistibilmente fuori dai varchi alla recinzione per partecipare alla cuccagna. La giustificazione, chiamiamola così, è palesemente e ridicolmente falsa.

Ed è vile, perché scarica sulla gente comune il compiacimento dell’atrocità che è un ingrediente statutario, “pedagogico” del terrore, dell’Isis come di Hamas. Pretende di attribuirsi un accredito da combattenti di Ginevra soverchiati dall’eccesso di un popolo ubriaco di giustizia. E offre un argomento a chi vorrebbe non distinguere fra Hamas e la gente. Ma c’è una verità. Non “il popolo”, ma una sua parte giovane e maschia, mobilitata sulla scia degli incursori ai varchi nella rete e nel muro, euforicamente saltellante ai lati dei pick-up e delle motorette che rientravano esponendo i corpi vivi o morti o tramortiti, gioiva e infieriva. E i guardiani di quei poveri corpi incitavano e insieme tenevano a bada bastonate calci sputi oltraggi della ressa giovane e maschia, perché avesse la sua parte fisica e simbolica nella umiliazione di vivi e morti, soprattutto di morte e vive e ferite e nude, senza guastare troppo la tariffa delle prede. Pedagogia, appunto. Ed economia. 

 

L’altroieri e ieri si sono sentiti famigliari di persone scomparse dire che speravano, sperano, che i loro cari siano fra gli ostaggi, perché almeno sarebbero vivi: un augurio terribile. Ci sono circostanze in cui si sa di doversi munire di una pastiglia di cianuro, di dover risparmiare un ultimo proiettile per sé, pur di non cadere nelle mani del nemico. Non se ne può giudicare, e d’altra parte queste persone non avevano un nemico, nella loro festa da ballo o nella cucina della loro casa. Forse si è troppo ricordato il precedente del caporale Gilad Shalit, catturato nel 2006, tenuto ostaggio a Gaza per cinque anni, e liberato finalmente in cambio di 1.027 prigionieri palestinesi nelle carceri israeliane. Fu un episodio doppiamente rivelatore. Mostrò in quale conto gli israeliani tenessero un loro uomo. E mostrò a quale smisurato tasso una vita israeliana si cambiasse con le vite palestinesi, un’iperbole dello spread. Con l’assedio e lo svuotamento di Gaza, Israele sta giocando ora un terribile azzardo.

Ma nella parola “priorità” ripetuta a proposito della liberazione degli ostaggi c’è un’illusione, una pietosa ipocrisia. Oggi la priorità di Israele è nella punizione di Hamas e nell’intento, fondato o no, della sua liquidazione. E quando si dice: “Se Israele ha scambiato più di mille prigionieri in cambio di uno solo, figuriamoci ora…”, si inverte la realtà. Per uno solo, o due o tre, si può pazientare anni, si può pagare carissimo. Per 130, 150, centinaia, è infinitamente più difficile. Il modo in cui questa volta si presenta lo scambio ineguale è fra gli ostaggi israeliani e stranieri, e le migliaia di abitanti di Gaza che forse saranno in mano all’esercito israeliano. Fino ad allora, gli uni e gli altri, israeliani rapiti e gente di Gaza, sono ostaggi di Hamas. Che esorta la popolazione a restare per meritarsi la corona del martirio, e per rendere più persuasiva l’esortazione organizza i posti di blocco. Un giorno, quella gente infierirà contro i suoi capi. 

C’era un’altra notizia sepolta nelle cronache. Che negli ospedali israeliani, oberati di feriti gravissimi e gravi, si rifiuti di curare gli uomini di Hamas catturati e feriti, e li si abbandoni accanto alle salme dei loro commilitoni. Tremendo dilemma. Succede, nell’emergenza sanitaria, perfino in pace, di dover scegliere chi curare. Discretamente, le cronache dicono che non si tratta di priorità.

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