Piccola posta
La bellezza del Bargello, un rifugio a Firenze
Finire al museo dopo tanto tempo, passeggiando in un fuori programma. Un racconto
Domenica scorsa stavo tornando a Bologna dal mio caro fratello. Ma in un’altra casa a me cara era entrato il Covid, e dovevo assicurarmi di non averlo preso anch’io. Sono andato in giro in cerca di un luogo in cui fare un tampone, nel pomeriggio di domenica, nel centro di Firenze, con un’estraneità irritata alla ressa, e finalmente l’ho trovato in una farmacia storica del Corso. Nel quarto d’ora di attesa del risultato, a pochi metri da lì, ho visto che il Museo di antropologia ed etnologia in via del Proconsolo era aperto, fino alle 17.30. Me ne sono rallegrato, non avevo tempo, ho fatto due passi più in là e sono entrato alla Badia Fiorentina, quella dove Dante vide Beatrice, c’era una ragazza bisognosa di tutto sui gradini, dentro era vuota. Ho guardato, il tanto da far passare i pochi minuti, il Filippino Lippi della Madonna che appare allo scrittoio di San Bernardo, e il dossale di Mino da Fiesole, sono uscito, ho dato un’occhiata nostalgica al Bargello, giusto sull’altro lato della strada, e sono andato a ritirare il mio certificato (negativo). Ma ho pensato che si era fatto tardi, e la mia visita bolognese sarebbe stata troppo breve. Ho riattraversato la strada e sono entrato al Bargello. Aperto fino alle 18.50! Il ragazzo al metal detector mi ha spiegato in inglese, ho ringraziato. Ero stato alla larga dai musei fiorentini.
Avevo frequentato i tesori del Duomo aperto e deserto durante la pandemia, grazie al privilegio di circolare da giornalista, che aveva trasformato Firenze in una specie di città in guerra. La guerra d’Ucraina me ne aveva tolto la voglia, e ora, otto giorni dopo il 7 ottobre della carneficina di Hamas, la città esuberante di gente eccitata dalle vetrine e dal resto d’estate mi ispirava un sentimento vergognoso di distanza: sembrava che non avessero saputo. Il Bargello una volta mi era famigliarissimo, è uno di quei luoghi in cui ci si chiede come sia stato possibile. In cui è troppo. Non la sindrome di Stendhal, che fu una spiritosa invenzione, ma la sensazione di essere soverchiati, di non saper né voler decidere davanti a quale Michelangelo, a quale Donatello, a quale Verrocchio, a quale Cellini e Desiderio e della Robbia e così via fermarsi. Viene da chiudere gli occhi. Dimettersi, lasciare che quell’adunata di opere meravigliose passino inosservate. Ho cominciato a fotografare l’ombra delle statue – entrava ancora una luce sfolgorante dalle finestre aperte ai piani superiori. Ho incontrato una famiglia di amici, loro erano alla fine della visita, il piccolo Pietro protestava, ne ho comprato il silenzio per cinque soldi. Poi ho deciso di ricominciare la visita come se fosse la prima volta, come se fossi un nuovo cinese o una nuova islandese, incerto solo se andare da sinistra a destra o viceversa. La bellezza fa soggezione, naturalmente, tanto più quando è diventata così classica, così superiore per così dire ai suoi stessi autori e così impassibile, e al tempo stesso così vulnerabile alla guerra mondiale, nonostante i cartellini che avvertono di non toccare. All’improvviso l’antipatia per il mio prossimo, quella imperdonabile e irresistibile che si prova nell’autobus all’ora di punta, si è mutata nel contrario, in una specie di compassione. Il Bargello mi è sembrato come un rifugio in cui correre disciplinatamente a ripararsi quando risuonano le sirene d’allarme, in tempo di pace.