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Gli impulsi diversi che guidano Israele e gli errori da non ripetere a Gaza

Adriano Sofri

Le ipocrisie linguistiche di chi "condanna Hamas però" e i ragionevoli dubbi politico-militari 


Care amiche, cari amici, vorrei intrattenervi su un paio di questioni cruciali. La prima è linguistica e logica, e in sostanza morale, e riguarda l’uso del “ma”, “però” – “nondimanco”, a dirla più aulicamente e machiavellicamente. C’è una evidente ipocrisia nel modo in cui viene sbrigata da alcuni la pratica della solidarietà con Israele e del raccapriccio per Hamas: “condanniamo, però…” (non dico di chi non condanna affatto, e amen). Ma – appunto – un mondo in cui si rinunci o addirittura si denunci il “ma”, “però”, “nondimanco”, sarebbe condannato alla rovina. Nella smania di assolutezze che nei nostri anni ha supplito alla nettezza di giudizio – “assolutamente sì!” – sta una impavida rinuncia all’intelligenza. Il suo campione è la formula “senza se e senza ma”, che è un contagioso proclama di stupidità. La seconda questione è politico-militare, e in sostanza morale anche lei. Israele è stata ferita terribilmente nella sua strenua ricerca di forza e invincibilità, e nella sua memoria intima. Quella ricerca di forza e invincibilità, di deterrenza, aveva via via sacrificato la reputazione civile – morale. Penso che la reputazione civile – morale – sia alla lunga la chiave di volta del progresso della convivenza umana. Oggi in Israele ci sono, vistosamente ed esemplarmente, desideri e impulsi diversi. Uno è quello a ricostituire la sicurezza ferita e offesa attraverso la rivalsa e la punizione militare. Il prezzo che ne viene alla buona reputazione – morti, feriti, sloggiati, affamati e assetati, bambine e bambini di Gaza, è già smisurato. Né si vede alcuno spiraglio verso un futuro diverso.

Ci sono sentimenti e propositi molto diversi in Israele e fuori. Come schierarsi, per così dire, come un sol uomo, per una peculiare scelta militare e solo per quella? Vuol dire che si è deciso, tolte le vittime proprie e altrui di Gaza e di Cisgiordania, che i missili dalla gittata di 2.000 chilometri vantati dall’Iran siano una millanteria, o siano destinati a essere neutralizzati da Iron Dome? Che si è pensato che ora una guerra con l’Iran (e Hezbollah, e Siria, e l’intero Iraq, e…) possa suscitare una ribellione che rovesci il regime degli ayatollah e dei guardiani in nome della libertà della vita e della donna? È un interrogativo lecito, infatti: io temo che un invasamento bellico moltiplicherebbe la ferocia repressiva dei turbanti. E una lunga guerra prospettata come un tutto per tutto estesa almeno a due “regioni” vaste come il centro d’Europa e la Russia, e l’intero vicino oriente, favorirebbe la tenuta dei regimi dinastici e autarchici o di quelli legati al filo forte e flebile delle verifiche elettorali e dell’influenza degli elettorati? Ancora più in là, anticipare una resa di conti guerresca fra un vecchio ordine in via di riparazioni e un preteso nuovo ordine di tutto il resto, è un azzardo ragionevole? Le “guerre di Gaza” funzionavano così: se ne distruggeva un bel po’, guadagnando il tempo che avrebbero impiegato a ricostruirla sulla terra, e a riscavarla sottoterra. Questa volta, si dice, è un’altra cosa: cancelleremo Hamas. È lecito dubitarne, e dubitare anche che la differenza starebbe qui. La differenza sta nel voltare una pagina. Si domanda: tu che cosa proponi? Anche qui, che cosa non fare più, che cosa non essere più, è già un gran passo. Oltre al quale, tener fede all’impegno per l’Ucraina aggredita, sostenere un Israele capace di braccare i nemici terroristi – di togliere loro l’acqua… – e di riaprire una prospettiva di accordi con i propri vicini di casa e i propri vicini di confini, curare la propria reputazione e indurre gli avversari a curare la loro… I programmi diventano buoni o no quando trovano uomini buoni o no a sostenerli, uomini, e donne, coraggiose, con un passato di guerra o di pace, sui quali incombe il destino di Yitzhak Rabin, di Anwar al Sadat. 

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