Gaza (LaPresse)

Piccola posta

Dalla pandemia all'Ucraina fino a Gaza. La tempesta fra le nostre Guernica

Adriano Sofri

In nemmeno tre anni, il virus e poi le guerre: eventi che ci ha colto impreparati, fino a travolgerci e a buttarci di qua o di là da una voragine di rovine, ad allontanarci reciprocamente fino a renderci invisibili e, anche, invisi

E’ come se, in nemmeno tre anni, una tempesta si fosse levata a travolgere le case in cui abitavamo, a buttarci di qua o di là da una voragine di rovine, ad allontanarci reciprocamente fino a renderci invisibili e, anche, invisi. Era stata la pandemia, così nuova, così imprevista ai più, da sconquassare dalle fondamenta i nostri legami: da pretendere di fare plausibile l’assurdo e il grottesco. Da un colpo così si usciva tramortiti (morti, anche, ma allora si usciva davvero). Poi è venuta l’invasione dell’Ucraina. Qualcuno di noi era più preparato. Non era tutelato solo da un’ordinaria e appena ragionevole fiducia nella medicina, ma da un’esperienza vissuta, una vaccinazione: la guerra post Jugoslavia, in Bosnia soprattutto (Kosovo e Serbia furono un’ambigua, annunciata e ottusa appendice), aveva mostrato non solo possibile ma mostruosamente avvenuta la guerra in Europa, benché una gran parte di europei intontiti si dicesse che “i Balcani sono i Balcani”, dunque non l’Europa: un neo sulla sua periferia dermatologica. Srebrenica, gli ottomila trucidati, le Nazioni Unite vilipese e vili, il genocidio – non una resurrezione degli anni 40, ma un episodio esotico. Tanto più che i trucidati erano musulmani.

Il nazionalcomunismo serbista preso per la sinistra. Ed ecco che l’invasione dell’Ucraina e la guerra così internazionale, così attenta a tenersi in bilico, vide sorgere da chissà quale ripostiglio asfittico un fastidio se non una ripugnanza per un popolo che si difendeva dall’aggressione alle sue case, un’esibizione di disprezzo per la mezza libertà occidentale ridotta a mera truffa di sé e del resto del mondo, un rimpianto per la Russia imperiale di tutti gli imperi fino alla cleptocrazia ortodossa attuale. La bufera non faceva che rinforzare, e travolgere le persone, destituirne il passato, buttarle di qua e di là – spiaggiate, se non fosse arrivata l’ultima (finora) furia: l’assalto osceno di Hamas a Israele e lo svelamento pieno del quieto vivere di una leadership israeliana con la sopraffazione, la superstizione e il cinismo. Di qua e di là, ancora, e a saltare, questa volta, è anche l’ultima barriera che si sarebbe detta insuperabile, la memoria dello sterminio, la limitazione estrema a ogni ostilità a Israele e ai suoi capi: la distinzione fra i governi e lo stato, fra Medinat Israel e Eretz Israel, e la difesa della sua sopravvivenza. C’erano le “linee rosse” anche nelle nostre vite personali, sono state quasi cancellate, angosciosamente, così come disinvoltamente erano state cancellate dalle potenze: la linea rossa in Siria, per eccellenza, vi si prodigò il Papa, vi cedette agilmente Obama (Siria: fra i 400 e i 500 mila morti, 14 milioni di sfollati e rifugiati, i palestinesi di Yarmuk affamati alla morte, Aleppo distrutta…). 

 

Ho abusato spesso dell’ospitalità del giornale. Ora vorrei che un giorno di questi trovasse uno spazio per ripubblicare un mio articolo del 18 maggio 2021, intitolato “Quanto sono preziosi per noi i bambini palestinesi?”. E quanto siano preziosi per noi i bambini israeliani. Soffrendo di esserne lontano – ma si stanno avvicinando rapidamente i teatri, come stoltamente li chiamiamo, di guerra – guardo i filmati. C’era un bambino, un ragazzino, avrà avuto otto o nove anni, in mezzo alla consueta veduta di macerie polvere affannarsi di uomini carichi di pesi umani o materiali, braccia di donne alzate, bocche urlanti: aveva in mano una bottiglia di plastica, era riuscito evidentemente a riempirla a uno di quei rubinetti micragnosi assediati dalle taniche, e sbatacchiava la sua bottiglia per spandere l’acqua di qua e di là, finché l’ha vuotata, e l’ha buttata via. Poi la scena si è spostata. In un altro filmato ho visto, al centro di una scena simile di rovine e scompiglio, un asino, o un’asina, Gaza è un commovente paese di asini, colpito dallo scoppio, il ventre sanguinante, mi pare, giacente, che girava lentamente la testa, il muso, a guardare attorno, senza mostrare di aspettarsi aiuto o di lamentarsi, con una specie di calma silenziosa. Un’asina, o un asino, come il cavallo di Palazzo Abatellis, o il suo erede di Guernica, che già somigliava a un asino, ma qui è come troppo stanco e sapiente per gridare e maledire. 
 

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