piccola posta
Poche storie, lo sciopero è generale quando chi lo indice lo dichiara tale
La sarabanda tra Salvini, la professoressa garante e i sindacati non c’entra niente con la questione, che è il nudo e crudo diritto di sciopero. È la riuscita o il fallimento della partecipazione dei lavoratori e delle lavoratrici a dare ragione o torto a chi l’ha proclamato
Sbigottito da quello che sentivo, anche senza volere, del diritto allo sciopero, ho provato a passare sommariamente dall’ascolto distratto a uno più attento. Grazie a Radio Radicale ho seguito la riunione delle commissioni parlamentari trasporti e lavoro con la signora titolare dell’Autorità garante per gli scioperi, Paola Bellocchi. Ho poi cercato qualche notizia su lei, docente di diritto del lavoro a Teramo poi alla Sapienza romana: il curriculum da lei compilato è dettagliato, dice fra l’altro: “Possiedo ottime competenze comunicative acquisite durante la mia esperienza di docente universitario, attraverso l’attività didattica, il ricevimento degli studenti (a volte anche stranieri) e l'assistenza nella preparazione delle tesi di laurea, nonché la partecipazione a convegni e seminari” (non sono indiscreto, dice che autorizza il trattamento dei dati personali). Una fiducia in sé altrettanto netta, se non di più, trovo nelle numerose interviste. Sulla Stampa di ieri, per esempio, annuncia che “nei prossimi mesi renderemo più stringenti le regole per proclamare gli scioperi generali”. Dice che “già così, adesso, abbiamo più di 10 scioperi generali all’anno”. Dice: “Ormai si indice uno sciopero generale persino l’8 marzo, per la festa della donna”.
Da parecchio tempo non seguo abbastanza le cose sindacali. Mi succede di cadere dalle nuvole. Ieri su Radio 3 persone solitamente affidabili si domandavano e si rispondevano se lo sciopero sia un’arma spuntata, superata, anacronistica. Se non abbia stancato. Mentre si provvede a restringerne l’uso con la innocente combinazione fra un ministro bullo e una professoressa spiaggiata: sai che cosa, ci rinunciamo da soli, e non ne parliamo più. In America ancora ancora, perché lì l’economia è abbastanza forte da non essere ostaggio dei maneggi multinazionali. Già, vaglielo a dire agli americani che mai di venerdì. Nell’automobile il fondo di solidarietà universale dei sindacati viene impiegato per finanziare il peso dello sciopero nei punti cruciali della produzione, una scacchiera antica che permette di fare più male possibile col minimo costo – e Biden ai picchetti, per non farsi mancare niente. Noi abbiamo una professoressa (io ho un debole per le professoresse, fin dal tempo di don Milani, che un po’ esagerò) tentata di farsi signora del venerdì, e dell’8 marzo. Alla Costituente, il diritto di sciopero fu regolato, se non sbaglio, da una memorabile tenzone fra Di Vittorio e Fanfani. Il secondo voleva che il diritto fosse sancito in Costituzione, e messo in capo ai sindacati, mentre Di Vittorio, assai più memore del corporativismo fascista, sosteneva che venisse riconosciuto come un diritto della persona, idea la più lungimirante. Così, obiettava Fanfani, si rischia una conflittualità perenne, dunque si arrivò a un compromesso che suona come una temerarietà logica, quello di un diritto individuale che si esercita collettivamente.
Il compromesso è altra cosa dal cavillo. Oggi il bullo Salvini si gioca il suo viceregno per un cavillo, e l’inaspettata promozione d’ottobre della professoressa deve fornirglielo. Senza arretrare davanti al paradosso: lo sciopero è “intersettoriale”, perché i sindacati si premurano di dargli delle eccezioni, dunque non è generale. Se avesse un po’ di humour, si accorgerebbe di rimproverare ai sindacati un difetto di generalizzazione. “Confederazioni, ancora uno sforzo”. (Citazione a proposito, perché il passo cui si stanno spingendo le confederazioni è quello della sregolatezza francese, non a caso sempre più invidiata: almeno là si fa festa davvero). In pratica, in nome del manco di generalità, si toglie qualche pezzo in più – “renderemo più stringenti…” – cioè si abolisce lo sciopero generale.
Si potrebbe pensare a un’ingenuità: invece di disquisire sul vario rispetto delle fasce di garanzia, si va all’assalto di un mito come lo sciopero generale, una caduta degli dei. Dimenticando che la legge 146 fu voluta, sul modello dell’autoregolamentazione, dai sindacati maggiori, e in prima persona da Trentin, col proposito di arginare le sigle corporative.
Per queste ragioni, autoevidenti, penso che la sarabanda di interventi sulle motivazioni più o meno pretestuose, più o meno deboli, o addirittura più o meno “politiche” – lo sciopero generale apolitico, che moderna invenzione – è più o meno interessante, più o meno caricaturale, ma non c’entra niente con la questione, che è il nudo e crudo diritto di sciopero. Voglio dire la mia, tanto: lo sciopero è generale quando chi lo indice lo dichiara generale. Poi, è la riuscita o il fallimento della partecipazione dei lavoratori e delle lavoratrici a dare ragione o torto a chi l’ha proclamato. Lo sciopero o fallisce o riesce. Che vuol dire che la burocrazia sindacale ha bisogno di ricordarsi di essere costantemente in questione, e di aver bisogno di coraggio oltre che di responsabilità.
In conclusione, la Garante per gli scioperi (che supponente denominazione, povera lei) al momento di rispondere alle domande dei parlamentari delle due commissioni, ascoltatela!, ha fatto mostra di un imbarazzante impappinamento, affannosamente protetta dal presidente-arbitro di casa. Aveva dichiarato di aver regolato la sua delibera “convenzionale” sui precedenti: le hanno chiesto limpidamente e ripetutamente di menzionare i precedenti. Aveva detto che in Italia c’è uno scialo di scioperi generali, e le hanno chiesto di indicarne uno solo che corrispondesse ai suoi immaginati criteri. Non ha saputo spiccicare parola, se non per lamentare di non aver previsto né voluto l’enorme esposizione mediatica che le è caduta addosso. Costernati, come esaminatori dopotutto benevoli, gli interroganti – molto nitidamente Andrea Orlando – si sono rassegnati a chiedere, in extremis, che la professoressa facesse i compiti a casa, e mettesse per iscritto, “nelle prossime ore”, le risposte che non trovava lì in aula.
Un’ultima nota sulla Cisl. Qualunque sia la sua posizione, dal momento in cui la questione di merito è stata trasferita brutalmente da Salvini sul piano della manipolazione ricattatoria del diritto di sciopero, non avrebbe dovuto fare altro che solidarizzare con Cgil e Uil. Non siamo né nel 1892 né nel 1919, e nemmeno nel 1969: ma una cosa così non era mai successa, e ora è successa. Si capisce che i sindacati vogliano risparmiare ai singoli lavoratori la punizione materiale della precettazione, benché così accettino di assumersene la punizione morale. Ma sarà bene che si trovi una riparazione. L’uomo – e la donna – non è fatto per il venerdì, ma il venerdì per lei, o per lui.