Piccola posta
Sinistra e destra intonano l'inno. Scontro sulla memoria di Mameli
La contesa "risorgimentale" sull'autore dell'inno. A chi appartiene il giovane patriota e cosa sappiamo di lui, oggi
L’ubicazione del romano Virgilio, che allora era solo un liceo classico, ora si è diversificato, era, ed è, formidabile. Ha il portone d’ingresso su via Giulia, la via più bella di Roma o quasi: quando lo frequentavo io, e poi fino al 1964, Mario Praz ci abitava ancora, nella sua prima “casa della vita”. Sul lato opposto, dove davano i finestroni delle mie classi, c’era il Tevere, subito oltre Regina Coeli, e appena sopra il Gianicolo. Alla lunga, per le mie compagne e compagni superstiti che, sospinti da Antonio Maria Cutuli, hanno dato vita all’Associazione fra gli ex-alunni, ha prevalso il richiamo del Gianicolo, del suo Garibaldi a cavallo e della sua Repubblica romana.
Martedì, mentre al Senato si cantava a gara e non in coro l’Inno di Mameli, ho pensato a loro e alla cura che col Comitato Gianicolo mettono alla sua memoria. A Goffredo Mameli è stata dedicata una nuova attenzione, compreso un film, o una serie tv destinata a Rai1 e intanto anticipata in qualche cinema. Non ne so granché, diffidavo un po’ delle presentazioni cattivanti di Mameli come una rockstar. Su Mameli c’è dal 2019 il libro di Gabriella Airaldi, L’Italia chiamò. Goffredo Mameli poeta e guerriero, Salerno ed. Più brevemente, la voce online del Dizionario Biografico degli Italiani redatta da Giuseppe Monsagrati. Ma ho l’impressione che se ne sappia ancora poco. Nemmeno le cose più commoventi: l’“allarmante gracilità” infantile. L’infelicità degli amori. L’ammirazione per il sacrificio dei fratelli Bandiera. I tre versi che compendiano il populismo mazziniano: “Quando il popolo si desta / Dio combatte alla sua testa / le sue folgori gli dà”. E, indirizzato a Mazzini, il telegramma più illustre, dopo quello malinconico “Obbedisco”: “Roma Repubblica. Venite!”. E nemmeno le cose più essenziali: che non aveva ancora vent’anni quando scrisse a Genova il testo dell’inno, musicato da Michele Novaro, e non ne aveva ancora ventidue quando morì a Roma, pochi giorni dopo la capitolazione della Repubblica, per una ferita riportata combattendo da valoroso al Vascello e poi a Villa Corsini. Dei ragazzi di oggi pensano a lui come a un vecchio, immagino, uno cui intitolare strade, e sbagliare il verso Stringiamci a coorte. E, i più avvertiti, sospettare dei versi innocenti: I bimbi d’Italia / si chiaman Balilla.
La memoria di Mameli è contesa da sempre: Giustizia e Libertà gli intitolò due sue Brigate partigiane, e i repubblichini di Salò diedero il suo nome a un reparto di bersaglieri. Martedì la contesa sulla sua appropriazione si è ripetuta nel canto, un po’ grottesco un po’ rivelatore, fra i banchi di sinistra e quelli, appunto, di Fratelli d’Italia. (La prima versione recitava: Evviva l’Italia. Nome di un prossimo partito). Il problema è vecchio: di chi è il Risorgimento. In particolare: di chi è il ventenne Mameli. Mazziniano, fervido garibaldino, strenuo repubblicano e giacobino, ci sono buone ragioni per pretendere che sarebbe oggi scandalizzato dall’autonomia differenziata, a partire dal nome da discarica, per non dire dei Lep. E’ uno di quei casi in cui si vorrebbe la spada di un Salomone pronto a tagliare in due Goffredo Mameli, già morto con una gamba amputata e andata in cancrena, aspettando di sentire da quale dei due settori dell’aula si levi il grido: “Signore, datelo a loro, non uccidetelo”. Le madri davanti a Salomone erano, sia detto con ogni rispetto, due prostitute.