Piccola posta
Tanto mondo oltre: Mostar trent'anni dopo
I morti in guerra e la vita mutilata di chi resta. La storia di Marco Lucchetta, Dario D'Angelo e Alessandro Saša Ota
Domenica sera, su Rai3, ho guardato il documentario sulla Mostar in cui il 28 gennaio di trent’anni fa morirono Marco Luchetta, Dario D’Angelo e Alessandro Saša Ota. Avevano 42, 47 e 37 anni, erano padri tutti tre. Ci si può chiedere, molti si chiedono, perché si vada nei luoghi di guerra a mettere a repentaglio la propria vita e a mutilare quella dei propri cari. Quella volta i fatti bastavano a rispondere. Gli inviati della Rai triestina stavano girando una storia sui bambini restati senza genitori (e sui bambini nati dagli stupri) nella Mostar dimezzata dall’odio di croati e musulmani. Il celebre ponte ottomano, “il Vecchio”, l’arco in cielo dei tuffi, era stato cannoneggiato dai croati fino a frantumarlo, due mesi prima. I tre conoscevano il luogo. Ota era sloveno e parlava il serbo-croato. Entrarono in una Mostar Est quasi deserta in un convoglio della Croce Rossa scortato dai Caschi Blu durante una tregua dichiarata di un’ora. Dieci minuti dopo la tregua era rotta. Si erano fermati in un cortile di vecchi mamme e bambini, un bambino di quattro anni, Zlatko Omanovicć, era uscito con loro dove ci fosse più luce, una granata di mortaio – mirata o no, nessun tribunale l’ha detto, ogni granata è mirata – li ha uccisi tutti tre, i loro corpi hanno riparato il piccolo, ferito solo leggermente. Che cosa si va a fare nelle guerre.
Anche tante altre cose, naturalmente. A “mettersi alla prova”, chi ne ha bisogno. A fare carriera. A conoscere il proprio prossimo messo, lui sì, alla prova, e senza averne bisogno, e a conoscere meglio se stessi. A volte si capisce solo dopo perché ci si è andati, o si lascia ai propri cari il brutto affare di capire. Luchetta ha un figlio, Andrea, che ora è inviato in Ucraina per il Tg1. Il piccolo Zlatko, con sua madre, venne accolto e curato a Trieste, prima di andare a vivere in Svezia, dove suo padre era rifugiato. Ho letto che Andrea Luchetta andò con lui ormai grande in quel luogo di Mostar, dopo un po’ Zlatko si allontanò per discrezione, un cane venne ad accucciarsi accanto ad Andrea, per alzarsi e seguirlo quando lui si alzò, e fu accolto nella compagnia. Bambini e cani sono, prima di raggiungere una dubbia altezza d’uomo, attori esemplari della guerra, nella Storia di Elsa o a Sarajevo o a Be’eri o a Gaza. Una volta ho assistito a un incontro della Fondazione intitolata a Luchetta, Ota, D’Angelo, Hrovatin: Miran Hrovatin era l’operatore triestino che da Sarajevo decise di accompagnare Ilaria Alpi in Somalia, per prendersi un respiro dalla città assediata e falcidiata, e morì assassinato con lei in quello stesso 1994. L’incontro era con Marzio Babille, medico triestino per anni responsabile Unicef e oggi ancora impegnato nel Kurdistan iracheno, che aveva costruito un legame fra bambine e bambini yazidi bisognosi di cure e Trieste. Non mi meravigliò che Daniela Schifani Luchetta, animatrice della Fondazione che da allora si è presa cura di centinaia di bambini malati o feriti nelle guerre o nelle migrazioni, fosse un’animalista appassionata.
Grazie al documentario ho visto e conosciuto, almeno un po’, Milenka Rustia, la moglie di Ota, e il loro figlio Milan, da poco padre di una bambina. Milan dice che alla fine ha rinunciato a voler conoscere “tutto” di suo padre. Che è andato dove era andato lui, e poi ha deciso di andare più lontano, perché c’è tanto mondo oltre. Io, dice Milenka, “non ho fatto pace”. E la figlia di Dario e Gianna D’Angelo, Nataly, che allora era già grande e racconta dei suoi studi e del suo lavoro, e anche dei progetti cui ha rinunziato.
Filmati di repertorio, testimonianze, come quelle della redazione triestina di allora, di Giovanni Marzini e Maurizio Calligaris – il capo redattore Fulvio Molinari è morto nel 2011 – immagini dell’attività della Fondazione per i bambini e per i camminanti vessati della rotta balcanica, rivendicano il ruolo peculiare della Trieste che allora e oggi si sforza di “tradurre” quello che succede a est, confuso fra disinteresse, ignoranza, disprezzo e paura. Trieste arranca, perduto il tram in cambio di un’ovovia, come ogni luogo oberato dal mito e minacciato dalla trivialità.
Mentre scrivo queste righe, arriva la notizia della morte di Mario Cerne, il figlio di Carlo, il Carletto di Saba. Non sono mai passato da Trieste senza andarlo a trovare. Entravano ancora abbastanza spesso dei pellegrini, lui per lo più li sbrigava alla svelta. Potevamo ricominciare, poco meno che coetanei, a parlare male della gente e malissimo dei tempi, senza riserve di banalità e ironia, e del destino dei libri, e del mondo. Toccherà ai bambini, e ai cani.