Piccola posta
Vi dico che Israele ha perduto l'aura che lo faceva caro a una parte di mondo
Genocidio e azzardi di guerra. Un'opinione contraria. Chi ha preteso e pretende ancora che lo slogan – “Stop al genocidio!” – sia una bestemmia, è del tutto fuori tempo
Si era cominciato con l’Armenia. Si voleva “semplicemente” spiantare l’Armenia dal suolo e distruggerne la popolazione vivente e la memoria dei testimoni. Era successo tante volte nel passato. Questa volta però è l’impresa dei rivoluzionari modernisti della Turchia. Hitler impara la lezione e la cita, capisce la modernità: è l’ossessione frustrata per gli ebrei che gli consente di capirla. La modernità può essere piegata alla realizzazione dell’Impero millenario.
L’avvocato ebreo polacco Raphael Lemkin, 1944, trova il nome per la cosa vecchia, genocidio, e ne fa una categoria giuridica. Inapplicata, benché menzionata, a Norimberga, la nuova parola si fa strada lentamente nella ressa delle congiunture concorrenti del dopoguerra (l’immane e mescolata quantità di morti, lo shock dell’atomica – “mai più Hiroshima” – la guerra fredda e l’indulgenza verso gli ex-nazifascisti, la decolonizzazione) fino a far emergere e a imporre, per la sua vera forza e per mancanza d’altro, il genocidio (antiebraico, quello contro gli zingari non può competere, e quello contro gli slavi è un’altra cosa, così come il razzismo biologico “di colore”) che smette di essere una categoria giuridica, sia pure l’estrema, un colmo dei crimini contro l’umanità, per mutarsi in una categoria morale e religiosa, o piuttosto, “sacra”. Consacrata, con l’attributo dell’“unicità”, significativo proprio per esprimere ciò oltre cui non c’è niente, mistico, non a caso accompagnato sempre, per dirlo, da aggettivi come indicibile, ineffabile, anche quando finalmente è stato detto... Unico, indicibile, sono attributi di Dio. Il termine di confronto è quello: la Shoah gli corrisponde o lo sostituisce. Non nominerai il nome della Shoah invano. La democrazia, che ha provato a fondarsi sull’antifascismo, è ormai quella che ha sconfitto il nazifascismo e ora si misura con la dittatura comunista e col totalitarismo, ha a suo fondamento rinnovato, almeno o soprattutto in Europa, la Shoah. Mai più Auschwitz. Quando, troppo raramente, affronta altri genocidi, ne maneggia il carattere giuridico, non quello sacro: né in Cambogia né in Ruanda né a Srebrenica…
Fra le cose che possono succedere c’è, ormai dev’essere chiaro a tutti, la fine dello Stato di Israele. Fra le cose che sono già successe c’è la fine di un modo di intendere e sentire la Shoah, e della funzione che quel modo aveva assunto per l’Europa. In sostanza: non la negazione né la minimizzazione del genocidio, ma la sua normalizzazione, la sua banalizzazione – la sua sconsacrazione. E’ quello che il giovane Ghali ha con invidiabile naturalezza detto in due parole.
Subìto il trauma del 7 ottobre, si erano rianimate le parole del retaggio, pogrom, shoah, genocidio. Pochi giorni, e il nome di genocidio tornava capovolto in bocca ai palestinesi e ai loro difensori. Privato dell’aura sacra che si era procurato lentamente e conservato nella sua qualità di massimo fra crimini, trattato come “un genocidio come gli altri”, autorizza il meccanismo del rovesciamento: le vittime che diventano carnefici – che cosa c’è di più naturale? Il 7 ottobre era ancora stato sentito come un sacrilegio. Poi non più. Chi ha preteso e pretende ancora che lo slogan – “Stop al genocidio!” – sia una bestemmia, è del tutto fuori tempo.
Con questa sconsacrazione l’Europa, e almeno le sue generazioni adulte, perdono molto. Perdono il loro vagheggiato fondamento. Israele, che può perdere se stesso e si sta giocando questo azzardo, ha perduto l’aura che lo faceva caro a una parte di mondo e inviso a un’altra, e su cui ha puntato oltre il limite.