Piccola posta
Quando Francesco parla a ruota libera, è bene attendere prima di commentare
Il Papa, pover'uomo. I suoi difensori accorati che rimproverano agli altri di non capire i suoi propositi, chiedendosi poi se sono stati traditi dalle precisazioni di Parolin
Siccome in tanti abbiamo commentato ieri le parole del Papa Francesco a un intervistatore svizzero, bisogna che ci torniamo su alla luce dell’interpretazione autentica che ne ha fornito il segretario di stato cardinale Pietro Parolin a Gian Guido Vecchi sul Corriere. Comincio da me che, trovando ovviamente assurdo e per così dire immorale che l’appello ad alzare bandiera bianca sia pure per negoziare fosse rivolto soltanto (o anche semplicemente prima) all’Ucraina invasa e non alla Russia di Putin che l’ha invasa, trovo il giorno dopo una netta conferma nella dichiarazione di Parolin. A proposito della “creazione delle condizioni per il negoziato”, dice, “è ovvio che non spetta solo ad una delle parti, bensì ad entrambe, e la prima condizione mi pare sia proprio quella di mettere fine all’aggressione”.
Prima la Russia di Putin, dunque, e per di più ovviamente. E per ribadire: “La Santa Sede persegue questa linea e continua a chiedere il ‘cessate il fuoco’ – e a cessare il fuoco dovrebbero essere innanzitutto gli aggressori”. Esegesi indubbia: la Chiesa romana non ha mai esitato a indicare nella Russia di Putin l’autrice dell’aggressione. E l’intervista (senz’altro riletta e corretta dall’intervistato) dà per scontato che Parolin parli dopo aver consultato il Papa, e per così dire a suo nome. E se le due “ovvietà”, prima finire l’aggressione, prima cessare il fuoco, non bastassero, eccone una terza: “Il rischio di una fatale deriva nucleare non è assente. Basta vedere la regolarità con la quale certi rappresentanti governativi ricorrono a tale minaccia”. A tale minaccia hanno ricorso soltanto, fra i contendenti, “certi governanti” russi – fuori di lì, lo fa per abitudine il pagliaccio nucleare di Pyongyang, l’armaiolo di Putin. Bene. La morale che se ne ricava è che quando il Papa Francesco dà una lunga e sciolta intervista – “a ruota libera”, come si direbbe – è bene aspettare almeno quarantotto ore prima di commentare, e in particolare prima di dichiarare la resa dell’Ucraina. Dai giornali di ieri si ricava, oltre che il subisso di reazioni indignate o desolate alla prima lettura delle parole del Papa, “infelici”, per la Conferenza episcopale tedesca, una lussureggiante antologia di approvazioni, compiacimenti – “l’avevo detto io” – e intimazioni all’Ucraina e ai suoi alleati a piantarla lì.
Leggete l’entusiasmo del Fatto: non perché siano d’accordo col Papa, ma perché il Papa (e un frettoloso Spadaro) è d’accordo col Fatto. I – non molti – difensori accorati di Francesco che hanno rimproverato ai critici della resa di non capire il vero proposito del Papa e di non amarlo per partito preso, e di amare invece la guerra, le guerre, si rigirano Parolin a chiedersi se siano stati traditi o se si siano traditi, e abbiano frainteso da capo a fondo quella che l’interpretazione autenticata del giorno dopo dichiara addirittura come un’ovvietà. In realtà, nemmeno 48 ore bastano, e bisogna ripensare a tutto, giorno dopo giorno, senza partito preso, senza vanagloria, e senza infallibilità. E senza immaginare inimicizie rabbiose al Papa. Io, per esempio, penso che la sua coerente difesa dell’umanità dei migranti sia una benedizione, diciamo. E che bisogni mettersi in quasi tutti i panni, anche i più scomodi. Come nel primo verso di un sonetto di G. G. Belli: “Il Papa, il Papa! Il Papa, pover’uomo” (era Pio IX). O nel titolo di Ignazio Silone, L’avventura d’un povero cristiano (era Celestino V).