Piccola posta
Il sacrificio dei figli del leader di Hamas Hanyeh e quella sua ripugnante compostezza
L’insegnamento di Hamas predica che la morte per il jihad è il fine supremo cui orientare la vita e la gloria più invidiabile per chi la ottiene. Esempi sulla scia della ripugnanza per quel compunto padre
I suoi, lui stesso, hanno subito diffuso il video in cui a Ismail Haniyeh, che sta visitando dei feriti palestinesi in un ospedale di Doha, viene annunciata l’uccisione di tre dei suoi tredici figli, e quattro nipoti, da parte di militari israeliani a Gaza. Sette morti suoi. E’ un accompagnatore a leggergli la notizia dal telefonino, lui tiene le mani giunte, annuisce. Poi si rimette a camminare, fisionomia impavida, e l’altro gli posa leggermente una mano sulla schiena, cautamente, rispettosamente, forse tentato di fargli coraggio. Haniyeh allora dice: “Ringrazio Allah per l’onore che mi ha concesso, sono morti come martiri sulla strada della liberazione di Gerusalemme e della moschea di al Aqsa”, e fa un cenno che vuol dire: “Ma no, continuiamo la nostra visita”, e dice infatti: “Adesso andiamo a lavorare”.
Haniyeh, 61 anni, fu più volte incarcerato in Israele. E’ stato primo ministro a Gaza per Hamas, ed è il suo leader politico, nell’esilio “dorato” di Doha, dove riparò nel 2017. Altri membri della sua famiglia sono morti a Gaza dopo il 7 ottobre. Il video con la sua reazione composta e virile alla notizia sull’uccisione di figli e nipoti è destinato a suscitare l’ammirazione degli aderenti di Hamas e dei simpatizzanti per la loro causa, per le stesse ragioni per le quali mi è odioso. L’insegnamento di Hamas predica che la morte per il jihad, il combattimento per Allah e il martirio, è il fine supremo cui orientare la vita fin dall’infanzia, e la gloria più invidiabile per chi lo ottiene. Di altri figli di Haniyeh si documenta una vita piuttosto gradevole e lussuosa in Qatar, anche durante la carneficina inflitta a Gaza, ma non è l’ipocrisia a offendere. L’ipocrisia è un ingrediente disinvoltamente maneggiato dagli islamisti, se non francamente teorizzato. E’ l’ostentazione di un’impassibilità, e anzi di una riconoscenza – variamente comune a tanti fanatismi religiosi e ideologici – per il sacrificio delle vite propria e dei propri cari. Il sacrificio, parola equivoca per contesti così diversi e opposti. Non la perdita dolorosamente accettata in nome di una causa più forte, ma l’adempimento estasiato di sé. Ringrazio Allah per l’onore.
Sulla scia della ripugnanza per quel compunto e dignitoso padre, è inevitabile richiamare altri esempi.
Non penso a Niobe e ai suoi sette figli, o a Priamo e al più valoroso dei suoi cinquanta figli. Penso ad Alcide Cervi, l’uomo cui nel dicembre 1943 furono uccisi tutti i figli maschi, sette – c’erano anche due sorelle – e che, evaso dal carcere e tornato ferito alla sua casa, fu pietosamente tenuto all’oscuro della loro sorte dalla moglie, la madre dei sette, che nemmeno un anno dopo sarebbe morta di crepacuore di fronte a un nuovo assalto fascista. Fu ammirevole il dolore di “papà Cervi”, la fermezza esemplare rispetto a una lotta che aveva pienamente condiviso coi suoi figli e coi loro compagni: “Dopo un raccolto, ne viene un altro”. Quel patriarca contadino morì a 95 anni nel 1970. Nel 1955, concludendo il suo libro di memoria con Renato Nicolai, “I miei sette figli”, aveva detto: “Maledetta la pietà, e maledetto chi dal cielo mi ha chiuso le orecchie e velati gli occhi, perché io non capissi, e restassi vivo al vostro posto!”.