Piccola posta
Lezioni dalla notte insonne illuminata da droni e missili fra Gerusalemme, Gaza e l'Ucraina
I commenti della presidenza ucraina, quelli di Mosca, l'incrinatura della santa alleanza solidale alla Palestina. Cose da ricordare dopo l'attacco di Teheran
Ora sembra che la partita che si è giocata la notte fra sabato e domenica non abbia riguardato il vero campionato: un’amichevole, giocata fuori casa un po’ da tutti. Non era detto che andasse così, non è mai detto, nemmeno quando ci si premura di ridurre i rischi al minimo. A posteriori, si è trattato di uno spettacolare esperimento reciproco, sia pure al costo piuttosto esoso di un mezzo miliardo di dollari, o poco meno. Per una notte. Io, che per una deformazione professionale, diciamo, ho aspettato sveglio sveglissimo che i più lenti dei droni arrivassero a destinazione, cioè non ci arrivassero, e facesse giorno, mi sono chiesto come si comportassero i miei simili nelle varie parti del mondo. Con una gran simpatia per quelle e quelli che, dopo aver ascoltato un ultimo telegiornale sull’orario esatto in cui sarebbero arrivati nel cielo israeliano i droni Shahed e i missili balistici dal vario nome e velocità e portata esplosiva, hanno spento e sono andati a dormire. E per chi è andato a dormire senza nemmeno il telegiornale. Che, gli uni deliberatamente, gli altri senza volere, siano andati a dormire nella notte in cui forse sarebbe scoppiata ufficialmente la famosa nuova guerra mondiale, e abbiano fatto i loro sogni. Con una gran simpatia anche per chi è rimasto sveglio, a cominciare dalle persone che in Ucraina, con lo stesso fuso orario di Israele, hanno aspettato di sapere quanti dei droni e dei missili iraniani sarebbero stati intercettati dall’azione congiunta di Iron Dome e dell’antiaerea angloamericana e francese e giordana e dalla collaborazione saudita. “Il 99 per cento”.
La presidenza ucraina è stata la più lenta a commentare, nel pomeriggio del giorno dopo: deplorando ovviamente l’attacco iraniano, apprezzando la difesa, e sottolineando la propria particolare partecipazione e competenza, dal momento che proprio quei droni Shahed, “martiri”, e missili di fabbricazione iraniana, fraternamente offerti alla Russia di Putin, sono quelli che piovono ininterrottamente sulle città, le centrali, le trincee dell’Ucraina (400 nello stesso giorno di domenica sulla sola mezza regione non occupata di Zaporizhia). E vengono intercettati in una percentuale precipitosamente ridotta, spesso a meno della metà. Come se su Israele, invece della sfortunata e fatata bambina beduina di 7 anni gravemente ferita dai detriti, si fossero contati i colpiti da 160 dei 320 ordigni spediti. Per tenere in forma l’umorismo ucraino, Mosca ha commentato gli sviluppi mediorientali raccomandando la moderazione. In Israele, la sera di sabato (sabato, appunto) un conduttore ha chiesto a un generale che cosa raccomandare ai cittadini: “Di andare a dormire”.
Anche a Gaza non devono aver dormito. Da parecchio a Gaza si veglia. Non so quanto abbiano sperato che l’impresa iraniana facesse male a Israele, devono anche essersi detti che non faceva bene a loro. La lezione principale, per me inaspettata in questa dimensione, della notte tra sabato e domenica, è stata l’incrinatura della santa alleanza che pareva essersi stabilita fra arabi e persiani, fra sunniti e sciiti, in nome della ipocrita solidarietà con la Palestina. Nemici giurati, separati dalla nazione – come gli arabi e i farsi dell’Iran – e dalla religione – come i sunniti dagli sciiti – si erano via via avvicinati, dopo l’interminabile strage siriana, attraverso il sostegno a Hamas, l’interruzione della guerra intestina in Yemen, l’accostamento fra Teheran e Riad: e la rassegnazione a un’egemonia della teocrazia degli ayatollah iraniani, e più paradossalmente al patrocinio militare, oltre che grottescamente ideologico, della Russia.
Ora le pedine sembrano essere tornate al loro posto, e le frontiere tradizionali (arbitrarie e sanguinose a loro volta) aver reclamato i propri diritti. L’intenzione di farne tesoro attraverso una trama diplomatica che isoli l’Iran e ripristini la trama degli accordi di Abramo (spezzata in punti cruciali come il Sudan della terribile guerra civile) allargandola, deve comunque fare i conti con una serie di ostacoli enormi. Il primo dei quali è Gaza e il rapporto fra Israele e lo stato palestinese. E l’altro, coincidente, il destino di Netanyahu, che per un momento si sente rafforzato dalla replica efficiente all’attacco dai cieli e dal sostegno ricevuto nonostante la carneficina di Gaza; tuttavia il suo primo avversario, Benny Gantz, ha avuto cura di mostrarsi come il principale titolare del successo diplomatico e militare, e di voler avere l’ultima parola sull’eventuale risposta a Teheran. Il fatto è che il troppo tempo trascorso dal 7 ottobre ha logorato il credito di Netanyahu, ma ha insieme rincarato i ricatti di cui crede di disporre, e ha mostrato come nel suo azzardo cinico non sia in gioco solo la sua persona (e famiglia) ma l’intera parte di establishment israeliano costituita dal suo governo: persone e forze sociali che non hanno futuro fuori dal rialzo della guerra. Netanyahu ha puntato da subito a coinvolgere Biden e gli Stati Uniti nell’allargamento della guerra fino allo scontro diretto con l’Iran.
Questo calcolo ha reso l’impresa di Damasco diversa da uno degli attentati oltreconfine mirati a eliminare nemici troppo pericolosi o vendicarsene: era implicita la risposta iraniana. Che, sceneggiata com’è stata – annunciata, limitata negli strumenti (niente missili ipersonici) e negli obiettivi (niente bersagli urbani), commentata come “interamente riuscita” e come “sufficiente, salvo che” – ha tuttavia inaugurato quello scontro diretto. Teheran e Gerusalemme si sono fatte vicine, e sul cielo della seconda hanno brillato gli ordigni della prima. E un altro ostacolo enorme sta sulla strada di chi, da Biden all’Europa ad altre potenze e alla segreteria dell’Onu, raccomanda a Israele di sentirsi paga della dimostrazione di efficacia appena ottenuta, e di farne l’occasione per un’apertura su ostaggi e cessate il fuoco a Gaza e in Cisgiordania: la questione dell’atomica iraniana. E’ questo il macigno che ingombra la strada. Lo era prima, lo è a maggior ragione dopo che la Russia in Ucraina ha voluto abbattere il tabù, quello che ne avanzava, e ostentare la differenza decisiva fra gli stati che dispongono della Bomba e quelli che non ce l’hanno. Che cosa sarebbe questo Iran – che schiaccia nella forca nella tortura e nella gogna donne vite e libertà – con un arsenale nucleare. E’ la minaccia, e insieme la carta in mano degli oltranzisti in Israele. E anche l’aspirazione non più controllabile degli altri, dall’Arabia Saudita in giù – e perché un Qatar, che ha tutto e il contrario di tutto, i capi di Hamas e gli F35 americani, non dovrebbe comprarsi la sua, in contanti? La sola speranza, in un tal paesaggio, starebbe in una ripresa seria, seriamente internazionale, del negoziato sulle armi nucleari. Sembra una lugubre battuta, detta ora. Ma è anche vero che dal fondo può venire la salvezza.