Piccola posta
Armi, coscrizione, voto in Ue e America. Tutti problemi per Kyiv, non per Putin
Gli aiuto sbloccati dagli Stati Uniti e la maggior fornitura di armamenti da parte del Regno Unito. annunciata da Sunak. sono buone notizie per Zelensky. Ma vanno accolte con riserva, condizionate come sono dalle elezioni dei prossim mesi
Lo stanziamento di un ingente fondo di aiuti per l’Ucraina è stato finalmente votato dagli Stati Uniti. Non era detto che avvenisse. Il ritardo con cui è avvenuto è costato caro all’Ucraina in vite umane al fronte e nelle città, case ed edifici civili colpiti, centrali di energia distrutte. Di questo lunghissimo intervallo l’esercito russo ha approfittato. Ha sempre più abusato di città come si abusa di donne d’altri, di Kyiv e di Odessa, che è il suo maggior piacere. E ha anche accumulato un vantaggio sul terreno. Cercherà di consolidarlo così da vantare la conquista di Chasiv Yar, un trofeo paragonabile a quello di Bakhmut (e altrettanto sanguinoso) e soprattutto rafforzando la pressione sulla infelice Kharkiv – che era la seconda città ucraina. Tutte le notizie di questi giorni vanno accolte con riserva, condizionate come sono dalle elezioni, in Europa e poi negli Usa.
Gli aiuti sbloccati, con qualche passo falso, soprattutto nel cruciale invio dei congegni Patriot, e qualche passo avanti, come la maggior fornitura da parte del Regno Unito annunciata da Sunak, non bastano, non devono bastare, a dimenticare il lungo sentimento di acqua alla gola del governo e della gente ucraina. La lezione era prevedibile prima di sperimentarla, un’incognita inevitabile dei regimi democratici in cui ogni decisione è provvisoria ed esposta al cambio. La lezione è che i soldi sono destinati a finire di nuovo, e qualsiasi strategia deve tenerne conto. Anche in tempo di pace del resto: la pacchia nostrana del Pnrr, con la beata anestesia dell’intelligenza, è lì a dimostrarlo. Con l’Ucraina non si ripeterà l’Afghanistan, ha detto Zelensky tirando il fiato. Non per ora, in realtà. Alla vigilia del voto del Congresso Usa, ieri confermato al Senato, il capo dell’intelligence militare, Kyrylo Budanov, aveva dichiarato alla Bbc che la situazione sul campo si sarebbe fatta dura, benché non “catastrofica”, tra la metà di maggio e l’inizio di giugno. Era ancora il momento di premere per le imminenti decisioni americane. Ma l’avvertimento era fondato. Anzi, tutti si aspettano che Putin esiga dai suoi militari una vittoria, quella Chasiv Yar appunto (una cittadina di 13 mila abitanti, prima) da sbandierare per il 9 maggio, anniversario della vittoria nella Grande Guerra Patriottica.
Il governo ucraino, ottenuto l’aiuto, e in attesa di incassarlo, è ancora alle prese con l’altra decisiva strettoia: il reclutamento. Ha da poco varato la nuova legge, la più impopolare, che irrigidisce le regole sulla mobilitazione. Ancora ieri dal ministero degli Esteri ucraino si disponeva che i consolati esteri del paese sospendessero i servizi per i cittadini ucraini espatriati in età di coscrizione – dai 18 ai 60 anni. Per il ministro Kuleba, “la cosa sta così: un uomo in età di leva se n’è andato all’estero, mostrando al suo stato che non gli importa della sua sopravvivenza, e poi là dov’è vuole ricevere servizi da questo stato. Non può funzionare. Il nostro paese è in guerra. Trovarsi all’estero non esonera il cittadino dai suoi doveri verso la patria”. I cittadini in questione sono, si calcola, 650 mila. Ai quali si sommano quanti vivono in patria in una specie di esilio interno, di semiclandestinità, per sfuggire alle commissioni di reclutatori: sostenuti, i renitenti, da una solidarietà via via più larga, all’opposto dell’antipatia sollevata dai reclutatori e dai loro metodi spicci. La penuria di uomini per il fronte è grave quanto quella delle munizioni, e più dolorosa: senza munizioni e senza uomini non si può resistere, ma non si può nemmeno sperare, dopo ventisei mesi, che l’arrivo delle munizioni basti a restituire un entusiasmo, o almeno una rassegnata buona volontà, a persone esauste e sfiduciate e non di rado deluse dai privilegi e gli scandali. Il punto più delicato delle recenti decisioni del Parlamento ucraino e della sofferta ratifica presidenziale stava nella richiesta di madri mogli e figli, di un ricambio per truppe provate dalla lunghissima permanenza nelle prime linee, e non è stata esaudita. Un segno drammatico della stretta.
Putin non ha questo problema, non ancora. Le elezioni, per lui, sono state un passatempo. La morte di Navalny, la strage jihadista, altrettanti intrighi da addebitare all’occidente. Adesso, forse, ha da sbrigare la pratica Kadyrov, se fosse vero che quel buffone è incurabilmente malato: magari la risolverà promuovendo ulteriormente quel figlio Adam quindicenne che, per il valore dimostrato fra l’altro pestando un prigioniero in ceppi, Ramzan Kadyrov aveva già promosso a capo dei servizi di sicurezza ceceni. Zelensky il problema ce l’ha, intero, e i suoi alleati responsabili con lui. L’aiuto ricevuto lo fa finalmente uscire dalla condizione dell’uomo con l’acqua alla gola. Può dire cose che non suonino dettate dalla necessità e dallo sconforto. Che l’Ucraina si batte per sé e per il mondo che vuole essere libero, e che per farlo ha bisogno del sostegno materiale di quel mondo, l’ha detto a oltranza. Ha visitato le trincee, continua a visitarle. Può dire altre cose, ora. Cose che suonino nuove, lungimiranti e consonanti con la gente. Ha la sua grande occasione, e nessuno l’ha scritta per lui.