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Piccola posta

Vergogna cubana: l'embargo vecchio di 60 anni sta affamando anche i bambini

Adriano Sofri

Lo scorso novembre il trentesimo voto dell'Assemblea generale dell'Onu contro il blocco economico imposto dagli Stati Uniti. Ma Washington tiene duro per l'eventualità che il collasso del regime sia vicino

Ho un amico, un poeta portoghese da sempre legato alla vita dolce di Cuba, come la chiamava. Racconta della fame, quella vera, quella di cui si muore, soprattutto i più fragili, bambini e vecchi. Le autorità cubane che si erano sempre fatte un vanto di non abbassarsi “a tendere la mano”, due mesi fa hanno ufficialmente chiesto aiuto, e ottenuto, al World Food Program, il Programma alimentare mondiale. Al centro della richiesta sta la fornitura di “1 kg di latte al mese a bambine e bambini fino ai sette anni in tutto il paese”. Non è granché, come si vede. Si tratta naturalmente di latte in polvere: il latte fresco, oltretutto, è impossibile da conservare per le continue e prolungate interruzioni della corrente elettrica. Cuba assicurava un litro di latte ai bambini sotto quell’età, ma non è più in grado di farlo. La penuria coinvolge la farina, dunque il pane, e anche lo zucchero. Il mio amico, che ha un’ironia amara, dice che perfino il tabacco non si raccoglie più, e i sigari sono un ricordo. L’ironia aveva i suoi precedenti: Pierre Salinger, già portavoce di John F. Kennedy, aveva raccontato un vivace episodio geopolitico del tardo 1961. Kennedy, solennemente: “‘Pierre, ho bisogno del tuo aiuto’. ‘Con piacere, quello che posso’. ‘Ho bisogno di un po’ di sigari’. ‘Quanti, Mr. President?’. ‘Circa 1.000 Petit Upmanns’. Sussultai – ricorda Salinger – ma seppi nasconderlo: ‘E per quando ne ha bisogno, Mr. President?’. ‘Per domani mattina’”. Salinger era anche lui un amatore di sigari cubani, conosceva i fornitori, ma dubitò di farcela, tanti e in poche ore. All’indomani, alle 8, si presenta alla Casa Bianca, e l’altro è in piedi che lo aspetta: “‘Com’è andata, Pierre?’. ‘Benissimo’. Mi ero infatti procurato 1.200 sigari. Kennedy sorrise, tirò fuori dal cassetto un lungo foglio e lo firmò immediatamente. Era il decreto che bandiva tutti i prodotti cubani dagli Usa. I sigari cubani erano d’ora in poi illegali nel nostro paese”.

Le cose comiche e quelle tragiche vanno volentieri assieme. A Cuba, dopo le manifestazioni popolari contro il carovita – l’aumento proibitivo del prezzo di benzina e gas – e la penuria di beni essenziali, la repressione è stata durissima. Fra chi aveva protestato o anche solo ripreso e messo in rete le proteste, ci sono state condanne per “sedizione” fino a 15 anni e oltre – 30 anni, in qualche caso. L’emigrazione, direttamente negli Stati Uniti, dove i cubani ricevono un’accoglienza di favore rispetto agli altri latini, o mascherata da transiti “turistici” esosi in Nicaragua o altri paesi in affari, ha superato le cifre della fuga successiva alla vittoria della rivoluzione castrista. Un capitolo penoso è il reclutamento mercenario nell’esercito russo in Ucraina. Penoso è stato anche, nel contesto attuale, l’ennesimo – il trentesimo – voto dell’Assemblea generale dell’Onu, lo scorso novembre, contro l’embargo Usa a Cuba: 187 paesi in favore della cessazione, due contro – Stati Uniti e Israele – uno astenuto – l’Ucraina.

Nel tracollo della vita civile e della stessa esistenza quotidiana, che fa immaginare un collasso del regime, “el bloqueo” resta l’argomento unico dietro il quale i capi di Cuba si trincerano. Lo fanno anche, dice il mio amico, con una inspiegabile ottusità, non celando e anzi spesso ostentando modi di vita sfarzosi, in un paese in cui lo stesso turismo è morto, e i grandi lussuosi alberghi dell’Avana non trovano il necessario a far da cucina agli eventuali clienti. Il mio amico dice che un embargo di sessant’anni ha talmente intorbidato e intossicato tutto, che l’apertura di Obama è dimenticata, e Washington tiene duro (compresa la designazione di Cuba come “stato che favorisce il terrorismo”) per l’eventualità che il collasso sia vicino, e il regime cubano bastona e imprigiona e spaventa la gente in nome dell’assedio – finché dura. Il mio amico dice che non ha più il coraggio di nominare la dolce vita di Cuba, e che basta guardare negli occhi la gente, che era la sua ultima trincea, per vergognarsene. 

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