Piccola Posta
A Srebrenica la memoria cancellata. L'eredità dell'accordo di Dayton, oggi
Una risoluzione Onu per condannare la negazione pubblica, promossa da specialmente da Germania e Ruanda, ma ostacolata dalla Russia e dalla Serbia
Non ho mai avuto voglia di deridere l’accordo di Dayton, novembre 1995, che mise fine alla guerra in Bosnia-Erzegovina. Non segnava l’avvento della pace, che non è venuta, “solo” la fine della guerra, che era durata quasi quattro anni. Sarajevo aveva superato il record di durata dell’assedio di una città in epoca moderna, che fino ad allora spettava all’assedio di Leningrado, durato 900 giorni fra il 1941 e il 1944, e restato incomparabile per il numero dei morti. Fu pieno di ingiustizie il compromesso di Dayton, ma vanno così i negoziati internazionali. Una clausola di quell’accordo, stipulato sotto la tutela degli Usa e dell’alcool sciorinato ai grandi capi nazionalisti, il croato Tudiman e il serbo Miloševi, era però insopportabilmente infame. Srebrenica era stata il luogo della vergognosa viltà delle Nazioni Unite incaricate di proteggerla (militari olandesi, un generale francese che aveva personalmente garantito) quando la cittadina si era rigonfiata di decine di migliaia di bosgnacchi in fuga, e di colpo lasciati in balia del sedicente esercito della Repubblica serba di Bosnia-Erzegovina agli ordini del generale Ratko Mladi, e dei suoi delinquenti paramilitari. Più di 8 mila persone inermi – 8372, finora – maschi tra i 12 e i 77 anni, furono separati da donne, bambini più piccoli, e vecchi più vecchi, e trucidati nel giro di pochi giorni dall’11 luglio 1995. In una lunga serie di processi il Tribunale Penale Internazionale “ad hoc” per la ex-Jugoslavia, che giudicava le responsabilità personali, condannò parecchi degli imputati, a cominciare da Radovan Karadžić e Mladi, anche per il reato di genocidio, oltre che per crimini di guerra e contro l’umanità.
Nel 2007 la Corte internazionale di giustizia, competente per le controversie internazionali, ribadì la natura genocida del massacro ma non condannò la Serbia e il Montenegro, eredi della Repubblica Federale di Jugoslavia, pur dichiarandone la complicità politica e materiale, ritenendo non provata la loro conoscenza dello specifico intento genocida. L’infamia: a Dayton si decise che Srebrenica venisse assegnata al territorio della Republika Srpska di Bosnia, con la motivazione dell’inopportunità di costituire delle enclave. Srebrenica, e il suo interminato cimitero monumentale, avrebbe dovuto e potuto essere dichiarata città libera con un’amministrazione internazionale. Fu riconsegnata ai continuatori dei massacratori, il cui nome e le cui effigi sono tuttora oggetto di devozione nella repubblica serba di Banjaluka e dell’uomo forte, Milorad Dodik, sempre sull’orlo della ripresa delle armi e della secessione. Gli autori del genocidio esaltati come eroi sulle bandiere sui muri e nelle scuole. A Srebrenica i superstiti – le superstiti – del massacro, sempre meno, incontrano per strada gli autori o i loro complici, restati padroni della città. Il 15 aprile scorso, il consiglio comunale ha deciso di cambiare nome a 25 strade cittadine, abolendo la toponomastica rimasta dalla ex-Jugoslavia – la via intitolata a Tito, alla “Unità e fratellanza” eccetera – e sostituendole nomi di glorie serbe e nessuna menzione delle vittime del genocidio.
In aprile, al Consiglio di sicurezza dell’Onu era stata presentata una risoluzione, ispirata dalle “Madri di Srebrenica” e altre associazioni civiche, e promossa specialmente da Germania e Ruanda, tesa a custodire la memoria del genocidio e a condannarne la negazione pubblica e nell’istruzione scolastica. La votazione nell’Assemblea Generale, fissata al 27 aprile e poi al 2 maggio, è stata ulteriormente rinviata – per ora – a metà maggio. Russia – col ministro degli esteri Lavrov che l’ha appena riproclamato – e Serbia di Aleksandar Vucic, strepitano che la risoluzione minacci di cancellare la Republika Srpska, e che Dodik sia il più fedele, anzi l’unico, interprete legittimo degli accordi di Dayton… E’ istruttivo, oltre che tragicomico, che in una recente manifestazione militante di protesta contro la risoluzione proposta all’Onu, Dodik abbia riscosso l’ovazione della folla dichiarando che quello di Srebrenica “è stato un massacro, non un genocidio”: una versione squisita di vittimismo nazionale.