(foto Olycom)

Piccola Posta

Una storia di Dedalo e Icaro, due facce sorridenti: Ilan e Assan Ramon

Adriano Sofri

Un racconto mitico, drammatico, del primo astronauta israeliano lanciato nello spazio, morto dopo la distruzione della navicella Columbia. E di suo figlio

Il programma Report è tornato su un fantomatico “quinto scenario” per l’aereo di Ustica, proposto in un libro da Claudio Gatti: sarebbero stati gli israeliani, indotti all’errore dal proposito di abbattere un cargo francese destinato a rifornire di uranio arricchito la base nucleare in costruzione dell’Iraq di Saddam. Tesi sulla quale non ho niente da dire - lo scetticismo è salutare ogni volta che “tutto torna”. Il servizio intervistava fra gli altri il capo della spedizione aerea israeliana che il 7 giugno 1981 bombardò il reattore iracheno di Osirak, insensatamente patrocinato dai francesi. I nomi dei piloti di caccia che compirono la missione furono resi pubblici anni dopo: tranne uno, quello del più giovane. Si chiamava Ilan Ramon e aveva 27 anni, i genitori sopravvissuti ad Auschwitz, dov’erano morti suo nonno e altri parenti. Il suo cognome era Wolferman, l’aveva cambiato con Ramon che in ebraico vuol dire melograno. La sua storia mi colpì quando la conobbi e continua a sembrarmi memorabile come un racconto mitico.

Ventidue anni dopo l’attacco di Osirak, il 16 gennaio del 2003, Ilan Ramon, ora colonnello dell’aeronautica, fu il primo astronauta israeliano lanciato nello spazio, insieme a sei compagni di equipaggio, fra cui la prima donna astronauta indiana. Il 1° febbraio la navicella Columbia, sulla quale rientravano, si disintegrò a pochi minuti dall’atterraggio. I resti si sparpagliarono in una vasta zona, nei pressi di un paese del Texas. Il paese si chiamava Palestine. Ilan in orbita aveva rispettato il sabato, e siccome da un’alba all’altra passava un’ora e mezza, aveva 16 albe e 16 tramonti al giorno. Aveva portato dei doni nello spazio, come un disegno della terra vista dalla luna, che gli avevano affidato i curatori dello Yad Vashem. L’aveva disegnata Petr Ginz, un quattordicenne praghese nel ghetto di Terezin, ucciso ad Auschwitz nel 1944. Quando i resti di Ramon e dei suoi compagni furono ricomposti, un esploratore indiano trovò il suo diario di bordo: un impasto di carta precipitato da 60 km a una temperatura incandescente, e rimasto alle intemperie per due mesi. Un meticoloso restauro permise di leggere le 18 pagine scritte a penna, nei primi giorni della missione: “Sono diventato un uomo che vive e lavora nello spazio”. C’erano le frasi dedicate a suo figlio Assaf e alla famiglia: “Assaf, mio primogenito. Ogni notte guarda al cielo e pensa a me che gli giro attorno. Un poco lontano ma vicino col cuore. Ti amo. Mi manchi. Prendi cura di te stesso, di tua madre e dei tuoi fratelli”.
A Ramon fu dedicato l’asteroide 51828. Quando lo Shuttle che l’aveva a bordo esplose, nelle piazze arabe ci furono festeggiamenti. Automatismi, inevitabili. L’ inimicizia governava e governa ancora il mondo.

La storia era ancora a metà. Il 13 settembre del 2009 quel primogenito di Ilan, Assaf Ramon, 21 anni, restò ucciso nello schianto del caccia F16-A che pilotava nel cielo della Cisgiordania. Un banale incidente: un guasto tecnico durante un volo di addestramento. Nella commemorazione, accanto alla foto del giovane in uniforme azzurra da capitano dell’aeronautica c’era la foto di suo padre Ilan, con la tuta arancione degli astronauti di Houston. Una storia di Dedalo e Icaro, due facce sorridenti, più felice quella paterna, più ironica quella filiale.

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