(foto Ansa)

Piccola Posta

La stima profonda e intatta per Manlio Milani, cinquant'anni dopo

Adriano Sofri

Piazza della loggia e gli effetti della longevità, che spesso mette alla prova l'affetto che ciascuno di noi prova nei confronti dei suoi contemporanei

Ieri ho visto una faccia di Renato Curcio giovane, un tg parlava di un’inchiesta giudiziaria, mi sono detto: Sta’ a vedere che diranno com’è morta ammazzata Mara Cagol. L’altro ieri e ieri sono stato colpito dai titoli di telegiornali e giornali su Mattarella a Brescia per i cinquant’anni dalla strage di piazza della Loggia. Una strage neofascista, il terrorismo nero all’attacco della democrazia... Per una volta, ho avuto voglia di andare a rileggere le pagine di Lotta Continua, e me stesso che ne scrivevo tanta parte. Ne ho ricavato, oltre all’amarezza, che è ormai l’ingrediente inesorabile di ogni stato d’animo, un forte sollievo. La risposta italiana di quel 1974 all’attentato vigliacco di Brescia, così a ridosso del referendum sul divorzio, fu impressionante, e forse fu il momento più alto della coscienza e della forza popolare di tutta la stagione che andò dalla seconda metà degli anni 60 alla metà dei 70, e che i fessi chiamano anni di piombo. Un documentario che mettesse semplicemente insieme le immagini delle fabbriche, dei consigli comunali, delle scuole (chiuse, le bresciane) e delle caserme, delle piazze italiane, nei giorni immediatamente successivi al 28 maggio 1974, darebbe a chi non era ancora nato, e anche a chi era già adulto ma non ancora levigato dall’abitudine e dall’egoismo, un’immagine dirompente di quella offesa, dignità e sicurezza di sé. Quello che venne dopo, compresi i successi elettorali della sinistra tradizionale, fu una ricaduta, ed effimera.

Il sabato successivo alla strage, l’8 giugno, nella piazza bresciana, che si era già riempita, per i funerali e per lo sciopero generale, di decine e decine di migliaia di persone, tenni un comizio a un migliaio di militanti e simpatizzanti di LC. Un lunghissimo discorso, che, come avveniva molto raramente, fu poi pubblicato su due paginoni del giornale - sul quale per amore del collettivo e sprezzo del narcisismo scrivevamo anonimamente, e ci guardavamo dal pubblicare, da vivi, nostre fotografie: a descriverci allora bisognerebbe che ci fosse nel dizionario dei sinonimi il contrario di “selfie”. Dunque mi sono riletto. Bene: mezzo secolo dopo, fanno notizia il discorso – ottimo, va da sé – del presidente della repubblica, e la distanza che l’ha separato da parole e fatti del governo italiano, il cui presidente, finalmente una donna, gli ha rubato la scena semplicemente presentandosi come quella stronza a un concorrente. Fra i miei pensieri di ieri ce n’era uno che sempre più insolentemente mi occupa, e ha a che fare con gli effetti della longevità che, in combutta con la denatalità, segna il nostro mondo. Ieri infatti pensavo alla stima e all’affetto che provo, intatti, per Manlio Milani. Caso raro, perché la longevità mette alla prova la tenuta di stima e affetto che ciascuno di noi (di noi uomini, delle donne non so abbastanza) prova nei confronti dei suoi contemporanei. Alla lunga, così lunga, anche quando – come succede spesso – non si rovesciano in insofferenze e rotture e malaugurii, quell’affetto e quella stima si fanno rosicchiare, per inerzia, stanchezza – e soprattutto per il fastidio di riconoscere negli altri l’antipatia e il dissenso che si prova per se stessi. A meno che non si sia così scemi e fortunati da essere beati di sé, che anche succede. Il nostro tempo è gremito di vecchiezze beate di sé, e di luoghi delegati a metterle in mostra. Naturalmente, la disistima quando non l’aperto disprezzo che i vecchi provano per i loro coetanei e conoscenti, e magari amici, che guardano non visti in televisione, è anche una chiamata in correità, e non andare in televisione non basta a esentarne.

Dove e quando ci conosciamo tutti, non solo la rivoluzione, nemmeno una partita di burraco si può fare senza metter mano al rancore. Qui sta la truffa della frase: Sono rimasto fedele agli ideali della mia gioventù. Nella “mia gioventù”, che qualche invidioso immaginava imbevuta di odio, si voleva un gran bene agli umani vicini e lontani. Dopo, l’amore per l’umanità resta, anzi, più premuroso perché più angosciato, ma l’amore per il prossimo, per i vicini di casa, di paese, di età, quello cede non all’odio, roba forte, ma all’impazienza, al malumore. In alcuni, i più bolliti, nell’avversione sospettosa per chi non gli sia ancora premorto. C’è quell’espressione che si usa senza darle peso, e anzi scanzonatamente, due si incontrano, non si vedono da un po’, si dicono: “Ti trovo bene. Che fine hai fatto?” Ecco, la longevità induce a restituirle l’originario significato letterale: Ti trovo male. Che fine hai fatto? Che fine abbiamo fatto. Che fine ho fatto. (Benedetto Croce, citando Salvatore Di Giacomo, in visita al Duca di Maddaloni: “Come state?” “Non lo vedi? Sto morendo”).

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