Piccola Posta
Così per il giornalismo italiano l'escalation di Kyiv è diventata un alibi
Il “quarto tallone d’achille”. Salvini che strilla, tutti gli altri che gridano all'escalation e Tarquinio che propone di sciogliere la Nato. Come si parla dell'Ucraina, in Italia
Accantoniamo per un momento l’argomento (che è per metà un argomento, e per un’altra metà un alibi) del rischio che armi fornite da alleati all’Ucraina e impiegate oltre la frontiera provochino una reazione russa tale da coinvolgere direttamente la Nato. E vediamo la cosa con gli occhi del fanciullo malizioso che guarda il passaggio del re. Putin, Lavrov, Peskov, Zacharova (Medvedev: ogni corte ha il suo buffone) hanno tuonato scandalizzati contro l’eventualità di essere colpiti dentro i loro confini. Zacharova, forse la più spiritosa, certo la più impudente, gridò che bisognava che “tutti gli invitati alla cosiddetta conferenza di pace in Svizzera sapessero” della posizione di Stoltenberg e se ne scandalizzassero. Dunque c’è una potenza statale che, ammonendo a ogni pie’ sospinto il mondo a ricordare la portata del proprio arsenale nucleare, invade un paese indipendente e lo bombarda indefessamente per due anni e passa fino ai suoi confini occidentali. E si offende come di un sacrilegio alla sola ipotesi che il paese invaso risponda colpendo dentro i confini russi, e precisamente le basi d’oltreconfine dalle quali partono gli attacchi alle città ucraine. E candidamente si aspetta che lo stesso scandalo sia condiviso dal resto del mondo, compresi gli alleati dell’Ucraina. Come si è potuti arrivare a questa derisione della logica, prima ancora che della morale, recitata con un’aria seria?
Proviamo a metterci nei panni dei governanti russi scandalizzati. Possono forse spiegare, con un po’ di fastidio per le domande petulanti, che l’Ucraina è da sempre e per sempre Russia, e dunque loro non stanno bombardando un paese straniero e indipendente. Già: di conseguenza, la Russia sta metodicamente bombardando se stessa, una sua periferia vasta e provvisoriamente indocile, che va riportata all’ordine (“denazificata”) a costo di far sì che su una terra nerissima e celebre per i suoi biondi raccolti non cresca più l’erba. E che delle sue città, come Charkiv col suo passato di capitale, non resti pietra su pietra. Non male, vero? La Russia imperiale bombarda se stessa, il proprio sacro territorio, come “madre fa sovra figlio deliro”. E come può la madre pietosa tollerare che il figlio trasporti il proprio delirio nella parte più interna della casa e turbi, oltre che la sua periferia, la pace intima e domestica? Oltretutto, la Russia si sbrigò a decretare che quattro regioni – Zaporizhia, Donetsk, Lugansk, Kherson – fossero territorio della madre Russia, dunque in eterno intoccabili e non negoziabili (benché non ne avesse occupata per intero nemmeno una), e dunque resterebbe da spiegare che parte di sé bombardi quando bombarda Odessa e Dnipro, Kyiv e Cernihiv, e quando fa piazza pulita di Charkiv.
Veniamo ora al giornalismo italiano, e facciamo che sia lo specchio dell’intelligenza nazionale. Non aveva ancora finito di leggere un titolo, non dico un articolo, su Blinken, che suona e canta e dice che sarebbe ragionevole colpire le basi oltreconfine dalle quali viene massacrata Charkiv, che ha avuto la pessima idea di insediarsi proprio al confine, e su Stoltenberg, il quale dice che col dominio totale dei cieli da parte della Russia e la sproporzione di proiettili (cinque colpi a uno, riferiva ieri sobriamente Nello Scavo per il fronte di Charkiv) e l’esaurimento delle difese antiaeree ucraine, provare a colpire le basi di partenza degli attacchi russi è una necessità vitale. Vitale per l’Ucraina, ma vitale immediatamente per la moltitudine di persone in carne e ossa, civili e militari, che ogni giorno crepano sotto quegli attacchi. Dunque l’Italia: Salvini (ogni buffone ha la sua corte) finalmente restituito al vecchio deliquio, strilla che si voglia “colpire e uccidere i russi”, e bombardare “Mosca”. Tutte e tutti gli altri, pressoché senza eccezione, gridano all’escalation, giurano “noi no, mai!”, intitolano a piena pagina che Stoltenberg ha dichiarato la Terza guerra mondiale (Travaglio: ogni buffone è il suo buffone). Passano le ore, e gli italiani dell’alta voce scoprono sbalorditi che una quantità di leader politici europei ed extra, e di interi governi, trovano ragionevole e necessario un diritto alla difesa ucraino oltre le linee, o almeno da considerare attentamente: una mezza pandemia d’occidente, cui l’Italia è fortunatamente immune. E Tarquinio dichiara che è venuto il momento di sciogliere la Nato – il momento è ora, quando ha la candidatura in tasca, prima se n’era guardato.
Bene. Questo è il minimo che si possa dire a serbare un grano di sale in zucca, una volta accantonato per un momento l’argomento (e l’alibi) dei rischi dell’escalation. L’argomento c’è, e coincide con la sostanza della sfida di Putin, ottenebrato dalla fiducia nell’impotenza degli amici dell’Ucraina, e poi affannato a recuperare un orizzonte alla propria bravata: la sostanza è la dimostrazione che chi possieda la Bomba, tanto più se la possieda in quantità, può togliersi qualunque sfizio. Non solo per mettersi al sicuro dai nemici – che sarà l’argomento della imminente corsa universale ad accaparrarsi la propria Bomba – ma per farne un boccone.
Poi c’è l’Ucraina. Un osservatore intelligente come l’ex ambasciatore Stefano Stefanini, sulla Stampa di ieri, elencava i “tre talloni d’Achille” della difesa a oltranza dell’Ucraina: “il rischio di escalation…”; “il venir meno dell’appoggio di governi, parlamenti e opinioni pubbliche; il vantaggio della Russia nel sostenere una lunga guerra”. Di qui la necessità di far entrare in gioco la diplomazia. Penso che occorra considerare realisticamente, tanto più chi abbia a cuore la libertà dell’Ucraina, un quarto tallone, per restare alla strana ortopedia: la possibilità di una crisi sociale e politica dell’Ucraina. La quale è terribilmente provata dai costi di vite perdute e ferite negli oltre 27 mesi di guerra; dall’esaurimento del volontariato e dalla renitenza alla mobilitazione cui risponde un rafforzamento del rigore; dalla povertà crescente della gente comune; dall’esasperazione contro una corruzione che attraversa ancora tutti gli esercizi del potere, dai più grandi ai più piccoli. La crisi interna è certo legata alle condizioni esterne, le armi, i finanziamenti, ma ha una propria dinamica autonoma, e guai a non sentirla o peggio a pensare di tenerla a freno con maniere forti. Che cosa dirà la parte del mondo che verrà in Svizzera il 15 e il 16 maggio è importante. E’ almeno altrettanto importante che cosa dirà, se non sceglierà di ripetersi, l’Ucraina.