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L'inno del Piave, quando si portarono via Leone Ginzburg. Un ricordo a Roma

Adriano Sofri

Viene inaugurata oggi una targa nel Parco della Resistenza dell’8 settembre, a ridosso della Piramide Cestia e di Porta San Paolo, per il letterato e antifascista. Morì a Regina Coeli per le torture delle SS

Oggi, martedì 18 giugno, alle 17,30, il Comune di Roma scopre una targa nel Parco della Resistenza dell’8 settembre, a ridosso della Piramide Cestia e di Porta San Paolo: “Viale Leone Ginzburg: Letterato e antifascista (1909-1944)”. Leone Ginzburg venne a Roma, appena liberato dal confino abruzzese di Pizzoli, alla fine del luglio del ’43. A Roma venne arrestato il 20 novembre, nella tipografia clandestina dell’“Italia libera” che dirigeva. E a Regina Coeli, il 5 febbraio, morì per le torture subite dalle SS.

Vorrei citare alcuni ricordi. Quello di Claudio Pavone, da “La mia Resistenza. Memorie di una giovinezza”, 2015: “Il gruppo di detenuti con cui ebbi maggiori rapporti furono gli azionisti arrestati dopo di me nella tipografia clandestina di via Basento dove si stampava ‘L’Italia libera’. Ero nella mia cella e dalla porta socchiusa vidi spuntare la faccia sorridente di Carlo Muscetta che mi fece con la mano un cenno d’intesa come a dire: ‘Come vedi ci sono anche io’. Lui mi condusse dai suoi compagni: Mario Fiorentini, Leone Ginzburg, Giuseppe Martini, Giuseppe Orlando, Manlio Rossi-Doria… Organizzammo un ciclo di conferenze da tenere la notte nella mia cella. Ginzburg parlò di Dostoevskij… Un pomeriggio, molto prima dell’ora in cui i detenuti dovevano rientrare nelle celle, le guardie, con modi particolarmente bruschi e agitati, costrinsero tutti a rientrare immediatamente nelle celle, con l’assoluto divieto di uscirne o anche solo di guardare dallo spioncino. Nel braccio stavano entrando i tedeschi. Erano come poi verranno raffigurati nei film neorealisti: avevano in testa l’elmetto, intorno al collo luccicanti nastri di proiettili, bombe a mano infilate nella cintura, i mitra in mano. Dagli spioncini socchiusi ogni tanto per qualche secondo si riuscivano a vedere. Ad alta voce fu pronunciato dal capoguardia il nome Ginzburg e dopo un paio di minuti l’ebreo Leone fu consegnato ai tedeschi. Con il suo strapazzato vestito blu e la sua carnagione scura spiccava fra le pesanti divise verdognole dei suoi nuovi carcerieri. In quel momento qualcuno da una cella cominciò a fischiare l’inno del Piave: era un fischio limpido e sicuro. I tedeschi certo non capirono, gli italiani si commossero, Leone fu portato via”.

Sandro Pertini ricordò che Ginzburg, ferito e tumefatto al rientro da un interrogatorio, gli disse: “Guai a noi se domani non sapremo dimenticare le nostre sofferenze, guai se nella nostra condanna investiremo tutto il popolo tedesco”.

Il ricordo di Carlo Muscetta, su “L’Italia libera” dell’ottobre 1944, finiva così: “Quando potremo salutare qualcosa di più che l’alba di un’Italia libera dall’onta della superstite reazione, e un’Europa federale, pacificamente unificata dalle concordi democrazie di tutti i paesi del nostro continente, allora dovremo ricordarci di Leone Ginzburg: dell’uomo che, dopo aver patito la brutalità dei nazisti, disperatamente sognava in carcere il giorno in cui avrebbe potuto farsi apostolo dei vittoriosi ideali delle Nazioni Unite, presso il popolo tedesco, redento a forza dalla bestialità hitleriana”.

Dalla fondamentale voce del “Dizionario Biografico degli Italiani” scritta da mio fratello Gianni (Vol. 55, 2001), gli studi sulla figura di Leone Ginzburg si sono moltiplicati. Mi limito a raccomandare la “lezione” di Marco Bresciani del 2021, per il Centro Primo Levi, su YouTube. (Bresciani ha pubblicato nel 2023 sulla rivista Contemporanea il saggio “Quasi a malincuore: Leone Ginzburg e Cesare Pavese dalla dittatura fascista alla guerra civile”).

Io che scrivo non sarò a Roma oggi, ma il caso ha voluto che possa salutare i partecipanti dalla strada che porta da Chișinău a Odessa.

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