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piccola posta

L'universo fra le pagine dei libri. Tre storie con Odessa al centro

Adriano Sofri

Divagazioni a partire da "Chi dice e chi tace" di Chiara Valerio e "Invernale" di Dario Voltolini (auguri per lo Strega). E un racconto da Kharkiv, dove il municipio ha ripopolato un laghetto cittadino di pesci rossi. Sotto le bombe russe

"Vittoria è morta ieri mattina. So che le piacevi, e che lei piaceva a te". Volevo scrivere, dopo Annalena B., sul libro di Chiara Valerio, “Chi dice e chi tace” (Sellerio), perché mi piace lei e mi piace il libro. Non so come vi comportate voi con le persone amiche di cui leggete un libro. Come me, penso: confidando soprattutto sullo scampato pericolo. Un libro brutto è il peggiore dei torti che una persona amica vi possa fare. Con Valerio non ho cominciato dalla pagina 69  – ubi maior – ma dall’inizio, e mi sono subito rassicurato dello scampato pericolo. Lei scrive con una gran confidenza in sé e negli altri, senza porsi il problema, per così dire. Lo stile dell’anatra, lo chiamava La Capria (obietto bensì alla liquidazione della congiunzione “che” nelle subordinate al congiuntivo, oggi trionfale e sentita da alcuni come raffinata: “non accettava fosse finita”, “non voleva accettassi” – un mio tic conservatore, fesserie). Mi sono aspettato di meglio e ho avuto ragione: l’indagine che Valerio conduce attraverso la sua protagonista Lea ha infatti per oggetto un modo bellissimo di far intervenire un amore nella vita di una persona, postumamente, per così dire. Vittoria, colei che è morta – non importa come e perché, non più tanto – è stata amata da Lea e Lea ne è stata amata. C’erano stati gesti. Vittoria nuota, legge, dice i nomi delle piante, ti posa la mano sul braccio, beve, gioca a carte, ti batte una mano sulla coscia, fa i nodi, ti afferra il mento, ti tira a sé… I gesti innocenti poi prendono un altro significato, senza per questo diventare colpevoli. Non sono rose non colte, è la scoperta di un amore. Una volta rivelato, non si può più pensare che sia avvenuto all’insaputa dell’una o dell’altra. Tant’è vero che una, quella rimasta, può raccontarlo.

Volevo dire più o meno questo, poi sono partito per l’Ucraina, e ora sono a Odessa, e penso e scrivo sulla guerra e sul modo in cui passa sopra gli amori delle persone e li esalta e li trasforma in angosce e dolori. Però oggi è domenica, il giornale domani non esce, e Odessa fila una sua avvolgente rete letteraria. 23 giugno, è il compleanno di Anna Achmatova, che nacque qui, nel 1889, nel sobborgo di Bol’soj Fontan, e la mia amica mi ci ha appena guidato. E mi ha raccontato che per ben tre volte si è collocata nel piccolo giardino una panchina, per tre volte rubata. “A tanto arriva la devozione degli ammiratori di Achmatova?” – ho chiesto – “Ma no! – ha riso – E’ il vicinato”. Così imparo. Lei, “il poeta”, si chiamava Gorenko, prese il nuovo cognome da una nonna tatara, e ne ricavò la musica di A che corre fra nome e cognome (nella Scauri del romanzo di Valerio ci sono due femminucce chiamate Enea, perché finisce in A). Era nata sul Mar Nero di Odessa e cresciuta sul Mar Nero di Crimea, ma scrisse:
 

“E se un dì pensassero in questo paese
di erigermi un monumento,
acconsento ad essere celebrata
ma solo ad un patto: non porre la statua accanto al mare ove nacqui –
col mare ho reciso l’estremo legame – o nel parco dello zar…
ma qui, dove stetti trecento ore e dove non mi apersero i chiavistelli”.
(La trad. è di Michele Colucci. “Qui”, è davanti al carcere della attesa lunga e vana).
 

La mia amica mi parla di Kharkiv, dove ieri le bombe russe hanno colpito il pieno centro e ammazzato qualcuno e fatto più di cinquanta feriti. Ha saputo che il municipio ha appena ripopolato un laghetto cittadino di pesci rossi – pesciolini dorati, si chiamano qui. Le sembra commovente, i missili e la premura dei pesci rossi. In questi giorni c’è una proliferazione di immagini poetiche, dev’essere il solstizio d’estate, la luna piena. Dove meno te l’aspetti. Nell’intervista a Polito sul Corriere, il cardinale Camillo Ruini, 93 anni, parla della morte, e dice che “fino alla Resurrezione, l’anima separata dal corpo è in una condizione innaturale, come un pinguino all’Equatore”. Poesia o pubblicità, o le due cose. Sul “Punto” del Corriere, venerdì, c’era una recensione-intervista a Dario Voltolini di Alessandro Trocino. Voltolini è anche lui in finale del Premio Strega con il suo “Invernale” (La Nave di Teseo). Trocino lo dichiara “formidabile”, facendomi pensare che sia possibile, anche per qualche dichiarazione di Voltolini che condivido cordialmente. Per esempio: “Diciamo che io ho questa cartina di tornasole: hai visto che esiste Antonio Moresco o no? Se n’è uscito ora con un libro di 500 pagine e tutti fanno finta di niente”. Io ho visto, altroché, che esiste Moresco. L’articolo mostra l’eredità, se non la coincidenza, fra il mestiere di macellaio che fu del padre di Voltolini e il mestiere di scrittore che è il suo. Lame affilate. Io non mangio carne – senza gran merito, mangio i pesci (una volta Kafka in visita a un acquario disse ai pesci: “Adesso posso guardarvi, perché non vi mangio più”). Non trincio nemmeno carne umana, ma ho un grosso debito con i chirurghi e con chi scriva chirurgicamente. Stamattina, al mercato di Moldavanka, quello di “Babel’” e dei “Racconti”, c’era un disgraziato con un modesto repertorio di macellaio domestico, e combatteva una battaglia perduta con le mosche e col sole, senza clienti in vista: volevo comprare un cosciotto, Kafka l’avrebbe fatto. Kafka diceva anche che “un libro dev’essere un’ascia per rompere il mare di ghiaccio dentro di noi”. La frase è celebre, benché sia difficile immaginare proprio lui con un’ascia in mano. Un precedente era Geremia, 23,29: “La mia parola è come un martello che spacca la roccia”. E un precedente domestico: la madre di Kafka ormai vecchia scrisse due paginette sulla famiglia, e ricordò un nonno materno che trascurava l’azienda per occuparsi del Talmud. “D’estate e anche d’inverno andava ogni giorno a fare il bagno nell’Elba. D’inverno col gelo portava con sé una zappa con la quale spaccava il ghiaccio per tuffarsi”. Geremia e il bisnonno, il mare gelato dentro e il fiume gelato fuori. A un’altra frase celebre di Kafka. “C’è molta speranza ma nessuna per noi”, si richiama Vittoria, la protagonista di Valerio, e “diceva che è la frase più comica del mondo”. (Non è però nelle “Lettere a Milena”, ma in un ricordo di Max Brod: “‘Il nostro mondo – disse – è solo un malumore di Dio, una cattiva giornata’. ‘Al di fuori di questa manifestazione, di questo mondo che noi conosciamo, ci sarebbe quindi speranza’. Sorrise: ‘Oh certo, molta speranza, infinita speranza, ma non per noi’”).

Il Corriere promuove Voltolini – auguri! – e io posso lodare Valerio (altre e altri non li ho letti, mi scuso). E senza farmi intimidire dalla sproporzione fra Odessa (o Kharkiv, già capitale, già dimora del fiore della poesia e della letteratura ucraina, radunata insieme per essere meglio decapitata all’inizio degli anni 30) e Scauri, che è la città natale di Valerio. Un cui recensore ricorda propriamente la raccomandazione attribuita a Tolstoj: “Vuoi essere universale? Parla del tuo villaggio”.

Si fermano tutti prima, a Sperlonga o a Gaeta. “Scauri esiste”, proclama Valerio nella sua nota d’appendice. Un’altra volta aveva detto: “Di Scauri tutti hanno sentito parlare o hanno sentito qualcuno parlarne”. Anch’io. Nel 1959 ero il più spericolato tifoso della squadra di basket del romano liceo Virgilio, torneo di promozione, e il 13 dicembre andammo in trasferta a Scauri. “Partita resa incerta dal campo reso viscido e difficile”, disse la cronaca locale custodita dal mio amico Tonino C.: e soprattutto dall’animosità della tifoseria, sotto la quale stavamo per soccombere fisicamente, se un ultimo tiro, la provvidenza, non avesse assicurato la vittoria allo Scauri, 33 a 32. Penso che avessimo portato una nostra spocchia coloniale in quella estrema provincia, come il grande avvocato romano trent’anni dopo nel romanzo di Valerio (però aspettammo i barbari e al ritorno, in casa, vincemmo 53 a 29).

Lea conduce la sua indagine alla ricerca del tempo perduto, ma è il suo modo di restare con lei. Ha una piccola debolezza, quando dice di essere passata accanto a Vittoria per vent’anni e non aver visto quasi niente di lei: “Sento di aver perso un’occasione”. Non l’ha persa, l’ha avuta, ce l’ha. “Ma Vittoria non mi piaceva in quel senso”, protesta Lea, e si capisce che cosa voglia dire. Si capisce anche che, “in quel senso”, non ha senso.