EPA/UKRAINIAN ARMY / OLEG PETRASIUK

piccola posta

Tenere alla vittoria di Kyiv ma tenere di più alla vita. Il dramma dei renitenti

Adriano Sofri

Una brusca sostituzione ai vertici dell'esercito ucraino è strettamente legata alla resistenza al reclutamento. La delusione per la corruzione e i privilegi, la sfiducia nei tempi e nei metodi di addestramento e nelle risorse materiali, la convinzione di essere mandati in prima linea allo sbaraglio

Sbaglia di grosso chi pensa all’Ucraina come a un caso periferico, singolare e anacronistico. In Ucraina sono successe due cose, in ordine di tempo, apparentemente opposte. La prima, decisamente straordinaria – così da sembrare “ottocentesca”, da “primavera dei popoli”: la corsa volontaria alla difesa del paese invaso dalla Russia di Putin. Una ressa agli arruolamenti, che si era dovuta frenare per la mancanza di equipaggiamenti, uniformi, armi, addestramento. La seconda, a distanza di oltre due anni: la fuga dagli arruolamenti, la renitenza alla leva, la diserzione.

In mezzo sta un esercito professionale, quello su cui mostrano di contare tutti i paesi europei, che in Ucraina si era formato a partire dal 2014 del conflitto per il Donbas, ma è stato presto superato dalla portata del conflitto dopo l’invasione del febbraio ‘22. Oggi, dopo essere stata troppo a lungo, sia pur comprensibilmente, trascurata o sottaciuta, la crisi della mobilitazione militare è al centro della discussione pubblica nel paese e fuori.

Martedì si è annunciata una nuova brusca destituzione, al comando delle forze armate orientali e meridionali, ordinata da Zelensky, che ha messo al posto del generale Jurij Sodol’ il generale Andrij Hnatov. Sodol’ era stato nominato solo a febbraio, ed è stato cacciato pressoché a furor di popolo, e soprattutto a furor di un collega prestigioso, il colonnello Bohdan Krotevych, che alla vigilia era arrivato a scriverne, pur senza farne il nome, che aveva ammazzato molti più soldati ucraini lui che qualunque generale russo. Un simile clima è strettamente legato alla resistenza al reclutamento. Nello stesso giorno, nella regione di Odessa si riferiva dell’arresto di una cinquantina di fuggiaschi al confine con la Moldova, e della rete che ne favoriva l’espatrio clandestino a un prezzo tra i 5 mila e i 18 mila dollari. Ancora, nel Nistro (il Dniester) confinante con Moldova e Transnistria l’inseguimento di un battello moldavo da parte delle guardie di frontiera ucraine si concludeva con l’annegamento di uno dei fuggiaschi – aveva versato i suoi 10 mila dollari. Destino che ormai riguarda molti uomini in età di mobilitazione – tra i 25 e i 60 anni – nell’altro fiume, Tiza (il Tibisco), e nello stesso Danubio, segnalando una penosa somiglianza con le migrazioni che ci arrivano da sud per mare.

Dopo un lungo ritardo, la legge che ha abbassato dai 27 ai 25 anni la mobilitazione è entrata in vigore lo scorso 1° maggio, e da allora si aspetta un’ulteriore riduzione, oltre che una qualche estensione dell’obbligo alle donne. La preoccupazione del governo è evidente se si pensi che gli eserciti, tanto più in una emergenza militare, reclutano giovani appena maggiorenni – diciottenni in Israele, e dei due sessi, e anche lì una questione di obbligo di leva sta sconvolgendo il quadro politico – mentre nell’Ucraina al terzo anno di guerra l’età media dei combattenti è ancora sopra i 40 anni. Renitenza alla leva e diserzione (fenomeni del tutto distinti) sono sempre stati diffusi. In Russia hanno preso, soprattutto con gli espatri del primo periodo, una portata rilevante, benché il reclutamento vi sia favorito o forzato dal soldo relativamente alto o dall’arruolamento di ogni genere di detenuti o di debitori insolventi (dopo la concessione di crediti facili). L’Italia della Prima guerra ha una gran storia di renitenti, disertori, autolesionisti e ammutinati. Gli Stati Uniti del Vietnam contarono quasi 600 mila renitenti, che ebbero gran parte nella disfatta finale – e così via. Dall’Ucraina, si calcola che siano espatriati più di 650 mila uomini in età di reclutamento. E un numero impossibile da calcolare riguarda gli arruolabili che se ne stanno nascosti nelle case proprie o di amici per non imbattersi nelle ronde del reclutamento, protetti da reti amplissime di segnalazioni sui movimenti delle pattuglie, via Telegram e altri social. La legge stabilisce l’obbligo di registrarsi presso le Commissioni di mobilitazione, e dal 16 luglio chi non avrà ottemperato sarà tenuto responsabile di un reato e della pena corrispondente. I processi già intentati contro renitenti alla mobilitazione superano i diecimila.

Ma la novità, che penso inedita, della situazione ucraina sta in questo: che i renitenti alla leva (non li chiamo obiettori di coscienza, che ci sono stati fin dall’inizio, una piccola minoranza, mossa da convinzioni antimilitariste o religiose o ideali, e pronta ad affrontarne le conseguenze) non sono “contro la guerra”, e al contrario, pressoché senza eccezione, si considerano favorevoli alla causa ucraina e si augurano la sconfitta della Russia. I loro sentimenti non differiscono molto da quelli dei volontari della prima ora se non per il tempo passato, la caduta dell’entusiasmo combattivo, la delusione per la corruzione e i privilegi, la sfiducia nei tempi e nei metodi di addestramento e nelle risorse materiali, la convinzione, maturata sulla scorta delle tante conoscenze dirette, di essere mandati in prima linea allo sbaraglio, con un’altissima probabilità di essere ammazzati o mutilati nel giro di giorni o settimane. Tengono alla difesa e alla vittoria dell’Ucraina - tutti i sondaggi e le interviste, anche le più protette, lo testimoniano - ma tengono ormai di più alla propria vita. La propria, e della propria famiglia. Semplicemente, il tempo li ha allontanati dall’abnegazione, li ha riaffezionati alla vita. “Non un uomo, non un soldo, per la guerra dei padroni”: non può essere il loro motto. Questa per loro non è la guerra dei padroni, è la guerra per la loro libertà, la loro terra, la loro casa. Ma c’è perché si riconsegnò alla Russia l’arsenale atomico, e perché si centellinano armi e distanze.

E questa è una lezione per gli alleati dell’Ucraina, per il famoso occidente. Le guerre finiranno, si può credere, quando coloro cui si chiede di andare ad ammazzare ed essere ammazzati si rifiuteranno di obbedire. Canteranno Monsieur le Président, je ne veux pas la faire. Moi j’irais déserter - come all’indomani di Dien Bien Phu. Quando i giovani non si rassegneranno più a fare da carne da cannone per i vecchi briganti. Ma l’occidente è esattamente quel posto, dove quasi nessuno può immaginare di battersi per qualcosa a costo della vita, e quasi tutti compatiscono o deridono francamente quelli che lo fanno a due passi da loro. E non si può combattere una guerra se la propria gente non vuole. La guerra postmoderna si pretendeva un confronto di tecnologie sofisticate, ed è venuto il 7 ottobre ed è venuta Gaza e all’Ucraina è toccato di condurla come in un mattatoio del ’14-’18. I dispotismi sanno tenere in riga le loro truppe. Le democrazie no. Non così, almeno. Certe dedizioni alla difesa del proprio territorio nelle democrazie sono relegate alla recita delle bandiere e delle bande paramilitari degli stadi di calcio.

L’Ucraina, i suoi leader, la sua gente, stanno facendo i conti angosciosi con questo paradosso: nec tecum nec sine te. Una sorte amara ha messo gli uni contro gli altri gli uomini del fronte e gli uomini fuorusciti. Se e quando i leader dell’Ucraina decidessero di sciogliere la loro impossibilità a costo della propria stessa idea dell’onore, andrebbero solo capiti e rispettati.

Gli altri, gli alleati, quelli stanchi, irritati, infastiditi, quelli sarcastici – dovranno farli anche loro quei conti. La diserzione non è gratis.

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