Piccola posta
Il decreto che non svuota le carceri ma che contribuirà a rimpinzarle
Il decreto Svuotacarceri, ha detto Carlo Nordio, punta solo a umanizzare il trattamento dei detenuti. E a riempire le patrie galere non sarebbe il governo, ma i magistrati. Intanto nelle celle, però, non si arresta il fenomeno dei suicidi
Uno che è stato in galera, quando è a piede libero, finisce per somigliare agli altri. A volte è addirittura meno tatuato. Qualcosa gli resta, nei sogni, o l’abitudine a camminare avanti e indietro nelle sale d’aspetto invece di star seduto. Ma succede anche a lui di fottersene. Di dirsi che tanto lo sa, che non cambia niente, tutt’al più fa più schifo oggi di ieri, e domani di oggi. Però mercoledì ho sentito un telegiornale annunciare l’approvazione del decreto “Svuotacarceri”, e sono trasalito. Lo chiamano addirittura così, il governo, i telegiornali? Non soltanto i forcaioli dall’anima e la lingua di sbirro? Il decreto non svuota carceri, e per qualche codicillo contribuirà a rimpinzarle. Ieri mattina Flavia Fratello per “Stampa e regime” ha dedicato alla cosa una rassegna esauriente e vibrante.
Allora ho sentito che il ministro Nordio, Dio lo perdoni, aveva chiesto ai giornalisti di evitare di chiamare così il provvedimento, che non svuota niente e nessuno ma si limita a “umanizzare” il trattamento dei detenuti: hai detto niente. In una cronaca ho letto che il ministro ha dichiarato: “Renderemo molto chiari ai detenuti i termini per godere della liberazione anticipata”. C’era stato un problema di comunicazione, dunque. Il ministro ha anche avvertito che a riempire le carceri non è il governo ma i magistrati. I quali però applicano le leggi che fa il parlamento e piuttosto, in sua accanita vece, il governo. Ma è vero che la divisione del lavoro fra chi infligge la pena e chi la fa eseguire è lo schermo dietro il quale si ripulisce il doppio lavoro sporco. Per il giudice c’è solo la pena – una cifra, un numero di anni – e non la persona. Per l’esecutore non c’è né la persona né il numero. Però le telefonate permesse passeranno da quattro a sei: un passo notevole nel paese in cui si è solennemente messa all’ordine del giorno la questione della mutilazione sentimentale e genitale dei corpi reclusi e di quelli dei loro cari. C’è l’altra questione seccante, dei suicidi. 49 finora, diceva il telegiornale, 51, il giornale di ieri. Sui suicidi in carcere non si è fatta abbastanza chiarezza. Com’è noto, la gente che si toglie la vita in una cella lo fa piuttosto indipendentemente dall’età e dalla lunghezza della pena da scontare, anzi non di rado è giovane e di condanne brevi, quando non è ancora in attesa di giudizio. I suicidi di galera rientrano solo in due categorie concorrenti, a seconda del punto di vista dell’osservatore. Se l’osservatore è un garantista, o banalmente una persona dotata di un qualche senso dell’umanità, il suicidio carcerario gli parrà una versione appena ipocrita della pena di morte. E i gestori del sistema penitenziario, e dell’intero sistema di giustizia, e dell’intera macchina sociale, correi in solido di omicidio volontario. Se l’osservatore è un intransigente e rigoroso fedele del primato della legge e della sicurezza, il suicidio carcerario, tanto più quando è così aggravato dall’andamento epidemico, gli parrà una forma di evasione di massa, di evasione maligna e vile, perché non più perseguibile se non dal vilipendio di cadavere, sottrazione del colpevole al castigo.
Un torto alla società, una cattiveria. Peggiore della fuga con le lenzuola annodate, la fuga col nodo alla gola. Una terza opinione, più banale e mediocre come tutte le inclinazioni al quieto vivere, può suggerire che i suicidi siano, non certo la soluzione, ma un aiuto alla riduzione della sovrappopolazione carceraria. Un contributo al passaggio dal sovraffollamento all’affollamento – la sognata normalizzazione.
C’è un argomento d’appendice per chi consideri l’esasperante condizione carceraria, che ha la capacità paradossale di peggiorare costantemente restando sempre uguale a se stessa. E’ quello che, con il più sincero rispetto, chiamerò il sovraffollamento degli addetti ai lavori. Sul sistema penale campa, per usare una parola grossolana, un universo colossale che comprende forze dell’ordine, impresari edilizi, giudici, giuristi, avvocati, cancellieri, periti, funzionari, impiegati, sottosegretari, carcerieri e dipendenti di ogni rango e grado, fornitori, trasportatori, medici, infermieri, psichiatri, psicologi, sociologi, docenti, cronisti, infiltrati, spie, delatori, eccetera, e inoltre assistenti, educatori, insegnanti, rieducatori, volontari, commentatori, scrittori, editori, religiosi… Rispetto ai tempi in cui i muraglioni delle galere non lasciavano davvero passare gli sguardi, c’è da registrare un progresso fenomenale. Ieri i giornali erano pieni di articoli, cronache, inchieste, prediche. Un sovraffollamento che tira l’altro.