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Missili a Odessa. Chi guardasse le sue spiagge direbbe: “È questa la guerra?”. È questa

Adriano Sofri

Lunedì la "pioggia" dei russi aveva imperversato su Kyiv, Dnipro, Kryvyi Rih, sulle città del Donetsk. Oggi è toccato anche di Odessa, con un bilancio di due morti e alcuni feriti

Nella meteorologia dei bombardamenti russi sull’Ucraina lunedì era prevista pioggia diffusa sulle città e una precipitazione temporalesca sulla capitale. Piogge record. La guerra, che serve anche a rinviare a data da destinarsi l’impegno contro il cambiamento climatico come un lusso per il momento impossibile, è essa stessa un cambiamento climatico. Ne riproduce gli effetti con una profondità e una velocità moltiplicate. Fa, come si dice, terra bruciata. Toglie alla gente il caldo nell’inverno e il fresco nell’estate e la luce sempre. Toglie ai bambini di un ospedale di maternità i fili e le cannule e gli aghi che li tengono in vita. Toglie il cielo agli uccelli e al cielo. Lunedì quella pioggia aveva imperversato su Kyiv, Dnipro, Kryvyi Rih, sulle città del Donetsk... Si erano distratti da Odessa, i maghi della pioggia del Cremlino.

Ci hanno messo una toppa questa mattina, il solito missile sul solito porto, i soliti due morti e qualche ferito – altri, ogni volta sono altri, ma si contano così, come i soliti, un guardiano, un camionista... Visto che ci sono, voglio dirvi del clima di Odessa. Non lo faccio, non abbastanza, perché so come sia difficile a chi sta altrove, abbastanza altrove, anche quando non sia accecato e incarognito dal pregiudizio, rendersi conto delle vite altrui.

Odessa è una magnifica città di mare, di un Mar Nero che non merita l’aggettivo e che custodisce, col Mediterraneo, l’altra metà dei tesori della mitologia e della storia di cui è fatta tanta nostra memoria. Il clima di Odessa è più temperato che nelle città continentali, e tuttavia oggi segnava 35 gradi. Odessa, la perla, era la mira più accesa della rivalsa imperiale russa, e poi il bersaglio più accanito della sua frustrazione. Il porto dal quale le navi salpano e attraccano, senza più elemosine di corridoi, grazie alla più inaspettata riuscita della resistenza ucraina, che con mezzi di fortuna ha decimato prima e poi costretto al ritiro oltre la Crimea la vanagloriosa flotta russa del Mar Nero, con l’ammiraglia finita in fondo al mare salutata da un dito medio di marinaio. A Odessa il mare non è più minato, e forse spiagge e mare non erano già prima minate quanto volevano mostrare, benché alcuni incauti o temerari ci fossero esplosi dentro. E a Odessa la gente, che è forse ridotta a un terzo del milione che l’abitava fino al febbraio del ’22, molta della sua gente, va al mare, come ha sempre fatto, specialmente donne e bambini e vecchi – rari uomini nell’età di regolamento. Va al mare, riempie le spiagge libere e quelle che noleggiano sedie e ombrelloni, continua a prendere il sole o a tuffarsi dal molo e dagli scogli senza badare all’allarme frequente delle sirene. E se ne va, appena più in fretta, quando uno di quegli ordigni le passa con un frastuono tremendo proprio sulla testa, o cade alzando una nuvola rossa di fiamme e nera di fumo in qualche punto vicino della riva. Poi torna, si rimette al sole, si ributta in acqua.

L’estraneo che guardasse le spiagge di Odessa direbbe, sbalordito o incattivito: “E’ questa la guerra?”. E’ questa, anche questa. Le case senza corrente, il cibo senza frigo, i telefoni senza carica, la povertà insidiosa, i famigliari assenti – morti, feriti, fuggiti, nascosti, una paura diventata sorda e permanente, l’insonnia... Un senso di colpa anche, e almeno di disagio pungente, per il pensiero di altre città, di Kharkiv, degli uomini al fronte, dei vecchi rimasti vicino alla battaglia senza sapere come andarsene o senza volersene andare.

E siccome ho accennato a questa Odessa, col suo solito missile e i suoi soliti bagnanti, voglio tornare sulla catastrofe che si è compiuta sotto i nostri occhi in meno di un anno, e che per fortuna non ci ha ancora abituati. C’è il mare, a Gaza. (Vidi anche quello, i bambini che ci sguazzavano). Nel mare di Gaza i pacchi di cibo paracadutati per sbaglio finivano contesi fra i nuotatori, e qualcuno affogava. Sulla terra qualcuno ne finiva schiacciato. Nel mare di Gaza, oggi, gli americani hanno annunciato che il famoso ponte artificiale su cui dovevano transitare gli aiuti è definitivamente fallito e viene smantellato. Nel mare di Gaza persone vanno a lavarsi o a fare i loro bisogni. Nessuna immagine di deserto vale a mostrare il cambiamento climatico quanto le macerie di Gaza. Gaza, da quando è cominciata, costringe a mordersi la lingua ogni volta che si parla dell’altra guerra – delle altre guerre. Perfino lunedì, il giorno dei record degli assassini russi e dell’infamia dell’ospedale pediatrico, il bombardamento israeliano sulla scuola ha voluto tenergli testa. Che cosa ha portato a questa pazzia? L’invasione dell’Ucraina è stata un’aggressione e basta (salvi i tifosi della Nato che abbaiava) e ha autorizzato a dirla “non provocata”, mentre i bombardamenti israeliani sono venuti dopo l’orrore del 7 ottobre. Sono stati, letteralmente, “provocati”. Non desiderava altro, Hamas. Ma il rispetto più forte e intimo per l’offesa sentita dalla gente d’Israele non impediva fin dai primi giorni di vedere che smisurata tragedia si stesse compiendo sulle vite umane di Gaza, donne e bambini e vecchi – e uomini – e che irreparabile ferita si stesse infliggendo all’idea e al sentimento verso Israele. Fra il tempo trascorso e l’accanimento con cui il tempo lavora su un solo uomo, un uomo solo come Biden, ci si è pressoché dimenticati che Biden aveva allora avvertito a non ripetere l’errore degli Stati Uniti dopo l’11 settembre. Gran pensiero, perché assimilava il trauma dell’11 settembre americano a quello del 7 ottobre israeliano, e perché a confessare l’errore era il presidente della mortificante fuga da Kabul.

Da allora, ogni giorno di più, la voce si inceppa a dire dell’Ucraina. (E delle tante altre carneficine che vantano il nome di guerre). Si è cercato, con le migliori intenzioni, di fare della difesa dell’Ucraina e di quella di Israele un impegno comune. La  gran parte del mondo, specialmente la parte più giovane e, nel senso migliore, ingenua, ha sentito il contrario. Ho un’ultima considerazione da fare, non la minore. C’è, in molti che hanno fatto della contrapposizione di Gaza all’Ucraina una professione (pagata o no), e io stesso ne faccio un’esperienza quotidiana, un equivoco così grosso che basta a sgonfiarne l’enfasi. Non tanto perché non si scelgono le vittime innocenti – com’è ovvio. Ma perché immaginarsi titolari delle sofferenze altrui al punto di rinfacciarle è un ridicolo abuso. Nessuno di noi, da questa parte, è una bambina ucraina né un bambino palestinese. Ognuno di noi fa i conti, prima di tutto, con sé.

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